L’esordio di Antonio Galetta era stato finalista alla 36a edizione del premio Calvino e poi, pubblicato nella collana Unici di Einaudi, ha vinto il Campiello opera prima. L’impianto stilistico di questo romanzo è davvero originale nonostante la cornice narrativa e geografica sia piuttosto semplice: un paese della provincia di un sud finalmente non esotizzato, una comunità qualunque in cui, come accade ciclicamente, arriva il momento delle elezioni. L’uso della prima persona plurale è affascinante ed estraniante allo stesso tempo: qui la voce narrante è affidata soprattutto al personaggio-coro di “uno di noi”, a cui viene affidata. E forse questo è anche il suo punto più complesso: l’interpretazione di Pietà dipende davvero dalla nostra coscienza politica, dalla nostra postura nel mondo, dall’esperienza comunitaria. Il libro risuona di più e più a lungo se non lo si considera semplicemente il ritratto del paese qualunque, con i candidati qualunque, con i loro fatterelli piccoli e grandi: posti e situazioni in cui – lo sappiamo – “non si vota il partito” (e nemmeno la lista, o lo schieramento o il programma) ma la persona. Quando sfuma, nella lettura, il confine tra intrattenimento passivo e coinvolgimento attivo. In poche parole, meno si è lettori e più si partecipa alla cosa pubblica. Ed ecco che si esprime al meglio l’originalità di questo romanzo, ecco che si sente la pietà. Per loro e per noi. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1642 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati





