Alla fine di ottobre ha fatto discutere la decisione di espellere l’associazione Artemisia di Firenze da Donne in rete contro la violenza (Dire), la più importante organizzazione di centri antiviolenza che raggruppa 87 associazioni in Italia.

Il motivo dell’esclusione è stata la decisione di Artemisia di permettere anche agli uomini di iscriversi all’associazione. Secondo lo statuto della Dire, infatti, questa possibilità è esclusa per tutte le associazioni che gestiscono i centri contro la violenza maschile sulle donne.

“Artemisia è una delle associazioni che hanno fondato la Dire e che hanno sempre tenuto molto al lavoro di rete. Quindi la sua esclusione è stata un grande dolore per noi. Ci siamo arrivate dopo un lungo percorso in cui abbiamo chiesto chiarimenti che non sono mai arrivati”, ha spiegato Cristina Carelli, presidente della rete Dire e coordinatrice generale del Cadmi di Milano.

“Non ci hanno mai comunicato direttamente la scelta di ammettere gli uomini nell’associazione e questo va contro il nostro statuto, di fatto si sono autoespulse”, continua Carelli. Le donne non devono mai incontrare un uomo nel loro percorso di uscita dalla violenza, “perché lo chiedono loro stesse. E noi crediamo che anche nelle istituzioni che gestiscono i centri non debbano esserci uomini”.

È una scelta che ha un motivo pratico: “Gli uomini non devono poter decidere come intervenire sulla violenza di genere. Invece, se fossero negli organi di gestione dei centri, potrebbero finire per farlo”. Inoltre ha un valore simbolico: gli uomini occupano tutto lo spazio del potere dentro la società, “per questo abbiamo bisogno di spazi delle donne, in cui sono le donne stesse a gestire anche il potere senza interferenze”.

Questo, per Carelli, non significa escludere qualunque rapporto con il maschile: “Il confronto è continuo con realtà come Maschile plurale, per esempio. Ma passa dal dialogo, non dalla cessione degli spazi. E deve partire dal riconoscimento della necessità per le donne di avere un loro spazio”.

L’associazione Artemisia da parte sua ha rivendicato la “volontà di avviare un cambiamento sociale e culturale che vorremmo vedere nella società: un movimento unico e unitario di donne e uomini per contrastare la violenza maschile sulle donne e la violenza degli adulti sull’infanzia”.

Per Simona Ammerata, fondatrice della casa rifugio Lucha y siesta e consigliera della rete Dire, lo statuto che esclude gli uomini dalla rete dei centri antiviolenza è coerente con l’impostazione dei centri fin dalla loro fondazione: “Non è un vezzo né una posizione astratta. Si basa su secoli di disuguaglianza e decenni di studi, ricerche e osservazione sul campo in Italia e nel mondo”.

Il cammino del riconoscimento storico e strutturale della violenza contro le donne si fonda sull’esperienza concreta di abusi, discriminazioni, esclusioni che non hanno a che fare con il singolo uomo, “ma con il rapporto di potere esercitato dal genere maschile su quello femminile nel corso della storia”. È da questo rapporto di dominio che si genera la violenza maschile sulle donne, quindi i centri antiviolenza lavorano per costruire luoghi sicuri, in cui le donne si possano sentire libere da condizionamenti e pressioni e in cui quel rapporto di potere non sia presente o sia scardinato.

“Il lavoro dei centri è restituire valore e autodeterminazione alle donne, ridefinire il loro protagonismo. Ma soprattutto rompere la gabbia che ci tiene imprigionate tutte e tutti, parlare delle emozioni, ragionare di relazioni”, continua Ammerata.

Le tecniche usate dai centri, mutuate dall’autocoscienza femminista, prevedono che le donne siano ascoltate in diverse sedute da un gruppo di altre donne e attraverso questo confronto ricostruiscano la loro storia. Solo attraverso questa relazione tra donne si pensano e si costruiscono percorsi di uscita dalla violenza psicologici, legali e materiali.

Quanti sono in Italia

Secondo gli ultimi dati dell’Istat, pubblicati il 21 novembre, il 31,9 per cento delle donne italiane tra i 16 e i 75 anni di età ha subìto almeno una violenza (si tratta di 6 milioni e 400mila donne): il 18,8 per cento ha subito violenze fisiche e il 23,4 per cento violenze sessuali. I dati sono in linea con quelli registrati dell’istituto di statistica nel 2014.

Per contrastare la violenza, sul territorio sono presenti quasi trecento centri antiviolenza, mappati dalla rete 1522, ma la loro distribuzione sul territorio nazionale è disomogenea. Secondo le stime, ci vorrebbero altri 240 centri per raggiungere lo standard minimo di uno ogni cinquantamila donne, come stabilito dalla Convenzione di Istanbul del 2011 (sottoscritta dall’Italia nel 2013) per il contrasto della violenza maschile sulle donne. I primi centri sono nati negli anni settanta, grazie ai collettivi femministi e alle case delle donne soprattutto nelle grandi città come Bologna, Roma e Milano. Ma si sono poi diffusi nel decennio successivo in tutto il paese.

Il primo raduno nazionale delle operatrici dei centri si è tenuto a Ravenna nel 1996. Secondo l’Istat, le operatrici sono oggi 5.916. Nel 48,7 per cento dei casi sono volontarie, ma la percentuale di personale retribuito è in aumento. Secondo i dati dell’Istat più recenti, nel 2022 le donne che hanno contattato almeno una volta i centri antiviolenza sono state 60.751, in aumento del 7,8 per cento rispetto al 2021 e del 39,8 per cento rispetto al 2017.

Chi si rivolge ai centri ha subìto soprattutto violenze fisiche, psicologiche, minacce e violenze economiche, che a volte durano da anni; violenze che conducono al pronto soccorso nel 31 per cento dei casi e in ospedale nel 13,6 per cento. Per il 30 per cento delle donne il rischio di recidiva, cioè di subire di nuovo violenza dallo stesso uomo, è alto o altissimo. Come per i femminicidi, gli autori delle violenze sono in prevalenza partner ed ex partner, nel 78,3 per cento dei casi.

La storia dei centri

I centri antiviolenza sono nati all’interno dei movimenti femministi negli anni settanta. Le donne si riunivano nelle case delle donne, nei collettivi alla ricerca di autonomia, a partire dal desiderio di uscire dai condizionamenti e dai rapporti di potere imposti dalla società.

La pratica dell’autocoscienza, la riflessione e la condivisione tra donne a partire dalla propria vita e dalle esperienze vissute, mettendo in discussione ruoli tradizionali e aspettative ancorate alle differenze di genere, ha rappresentato la base per la nascita e la costruzione di nuovi spazi di relazione.

“Il primo centro aperto è stato il Cadmi di Milano fondato da donne straordinarie come Marisa Guarnieri”, racconta Cristina Carelli, presidente della rete Dire e coordinatrice generale del Cadmi. “Sono partite dall’esperienza: molte donne che partecipavano agli incontri di autocoscienza femminista erano vittime di violenza domestica”.

Prima fu aperta una linea telefonica per le richieste di aiuto, poi degli spazi rifugio. “Queste testimonianze mostravano che c’era una continuità nella violenza. C’erano delle dinamiche simili tra tutte le donne che subivano violenza e i soprusi si basavano sulla disparità e sulla discriminazione tra uomini e donne”, continua Carelli.

Le prime esperienze di donne, mogli, compagne, che si allontanavano da casa per fuggire dalla violenza scegliendo di vivere con altre donne, hanno rappresentato la possibilità di sovvertire l’ordine preesistente, il dominio economico, culturale e sociale degli uomini. “Poi quelle esperienze si sono messe in rete. Hanno capito da subito che c’era la necessità per i centri di scambiarsi dei saperi, di mettere in comune delle pratiche. E da quella rete informale è nata la Dire”. Poi è arrivato il riconoscimento anche dalle istituzioni.

L’istituzionalizzazione dei centri antiviolenza avviene nel 2013, con il riconoscimento della Convenzione di Istanbul e anche con la prima legge sulla violenza di genere (la 119 del 2013), continua Carelli. Da quel momento sono cominciate in Italia delle politiche che hanno trattato la violenza maschile sulle donne come una questione pubblica: “È nato il piano strategico nazionale contro violenza donne e violenza domestica, per esempio”.

Oggi i centri antiviolenza devono affrontare una nuova fase e nuovi attacchi, i tentativi di neutralizzarli e di ridurli a un servizio come tanti: “Le scelte politiche che il governo sta facendo sono securitarie. Riportano il fenomeno della violenza maschile a dei casi singoli che riguardano alcune donne, senza considerare gli aspetti strutturali, la radice culturale di questa violenza. Ma è di questa cultura che si occupano i centri ed è proprio un approccio strutturale che è richiesto anche dalla Convenzione di Istanbul”.

Se sei in pericolo o in una situazione di violenza, o se conosci qualcuno che lo è, in Italia puoi chiamare il numero 1522, gratuito e attivo 24 ore su 24. Offre ascolto, supporto e orientamento verso i centri antiviolenza e le case rifugio.

Si può contattare anche via chat sul sito 1522.eu.

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