Nel bel mezzo della pianura padana, una macchia verde interrompe d’improvviso la geometria squadrata dei campi coltivati. Entrandoci, ci si trova catapultati in un intrico di boschi, sentieri, zone umide, laghi e canali. Con un profluvio di animali che non ti aspetteresti mai di incontrare da queste parti: caprioli, aironi, picchi, rane. Perfino un branco di cavalli bianchi di razza camargue, che scorrazzano liberi tra l’erba alta.

Siamo a Giussago, in provincia di Pavia, a diciotto chilometri in linea d’aria dal duomo di Milano. In questo luogo, nel cuore della pianura più cementificata e antropizzata d’Europa, si sperimenta una nuova idea di convivenza tra agricoltura e natura. Proprio qui, dove la terra è segnata dalla fatica delle monocolture e dall’odore acre degli allevamenti intensivi, dove il gesto agricolo è improntato alla massima produttività, qualcuno ha fatto una scelta completamente diversa: restituire spazio alla natura. Ridare respiro alla terra.

Questo luogo si chiama Simbiosi, e nasce da un’idea semplice ma radicale: rendere all’ecosistema quello che l’agricoltura intensiva gli ha tolto. Non si tratta di un parco né di una riserva naturale, ma di un nuovo modello agricolo, che parte proprio dal ripensamento della logica produttivista della pianura. Ogni intervento è pensato per ricreare equilibrio: i canali seguono l’antico corso delle acque, le siepi delimitano i campi come un tempo, le zone umide tornano a trattenere l’acqua piovana e a ospitare anfibi e uccelli migratori.

“Simbiosi è nato quasi per caso”, racconta Piero Manzoni, manager e amministratore delegato della società che porta il nome del progetto, specializzata nell’uso efficiente e sostenibile delle risorse naturali. È stato il suocero Giuseppe Natta a concepire questo luogo, farlo nascere dal nulla e poi svilupparlo. Nel 1995 ha pensato di ricreare in una tenuta agricola di cinquecento ettari l’habitat della pianura com’era mille anni fa. Guidato dall’intuizione e dall’ingegno di Natta — figlio di Giulio, premio Nobel per la chimica nel 1963 — il progetto ha coinvolto università italiane e olandesi.

“Per avviare questa trasformazione”, spiega Manzoni, “non potevamo limitarci a un intervento estetico o paesaggistico. Serviva un approccio scientifico e tecnologico, capace di restituire al territorio la sua struttura originaria e di guardare al futuro. Giuseppe Natta è stato l’artefice di questa trasformazione con un progetto che ha coinvolto tre università: la Statale di Milano, l’università di Pavia e quella di Wageningen, nei Paesi Bassi”.

“Le prime due”, prosegue il manager, “ci hanno aiutato a ricostruire la memoria ecologica della pianura padana, a capire com’era questo territorio prima della grande corsa alla produttività e alla cementificazione. L’università di Wageningen, che è tra le più avanzate al mondo nel campo dell’agricoltura e della pianificazione ambientale, ci ha poi guidato nella fase successiva: trasformare i dati storici e le mappe ecologiche in un vero progetto di rigenerazione. Le competenze interne hanno poi realizzato dei brevetti per valorizzare gli scarti e renderli adatti a tornare al suolo incrementandone la fertilità. È stato un lavoro lungo, quasi artigianale, che ha richiesto di ripensare ogni dettaglio, dal drenaggio del suolo alla scelta delle specie arboree. Ma solo così abbiamo potuto restituire alla terra un equilibrio autentico, non artificiale”.

Un modello replicabile

Il resto, dice ancora Manzoni, è venuto da sé: durante e dopo la rinaturalizzazione sono ricomparsi gli uccelli migratori, gli animali selvatici. È tornato tutto quello che il modello agricolo della pianura aveva espulso. Solo i caprioli e i cavalli camargue sono stati introdotti artificialmente, con un primo ceppo; tutte le altre specie si sono insediate spontaneamente. Nel giro di pochi anni, l’area ha registrato un aumento significativo di biodiversità. Sono state censite più di 220 specie di uccelli, molte delle quali tornano stagionalmente, seguendo i ritmi naturali del territorio.

Quei cinquecento ettari originari sono stati lasciati alla natura, senza ulteriori interventi. E dall’osservazione dei meccanismi di rigenerazione naturale è stato creato un nuovo modello di agricoltura rigenerativa. Alla base, una scelta fondamentale: rinunciare a una parte della superficie coltivabile — circa il 10 per cento — per destinarla a margini ambientali, cioè ad aree che separano habitat diversi, siepi, boschetti che fungono da filtro, protezione naturale. Risultato: terreni più vivi, produzioni più sane, maggiore biodiversità. E di conseguenza un minor uso di insetticidi e di fertilizzanti chimici.

“Il territorio lavora come un organismo: ogni parte è interdipendente, ogni scelta agricola tiene conto delle dinamiche ecologiche circostanti”. Così, tra un campo di riso e un boschetto di pioppi, lo sguardo incontra stagni popolati di rane, siepi fitte di passeri, e distese d’erba dove si muovono liberi i cavalli bianchi.

Nelle parole di Manzoni, quel 10 per cento non coltivato è un investimento. “Questa fascia naturale è la nostra difesa più efficace. Protegge il campo da insetti dannosi e contaminazioni esterne, crea un microclima più stabile e restituisce vita al terreno. Ma soprattutto, cambia il modo di pensare l’agricoltura: non è più una lotta contro la natura, ma un’alleanza”.

Il risultato sembra controintuitivo: rinunciando a coltivare, la resa aumenta. Secondo le stime di Simbiosi, con il novanta per cento di superficie produttiva si ottengono risultati migliori di chi coltiva tutto. Il beneficio, aggiunge il manager, non è solo produttivo: un terreno vivo trattiene più carbonio, filtra meglio l’acqua, diventa più resistente alla siccità. “E poi c’è un valore che non si può quantificare: la bellezza. Quella di un paesaggio che vive, di un campo che non è più una fabbrica, ma un ecosistema”.

La linea di confine tra l’area naturale di Simbiosi (a destra) con l’agricoltura diffusa in pianura Padana, 4 novembre 2025. (Michele Lapini)

Simbiosi non vuole essere un’esperienza a sé, una monade dentro una pianura immersa in un altro modello produttivo. Si è data l’obiettivo di creare comunità, diffondere e irraggiare saperi. Così, già da tempo, 95 aziende agricole della zona si sono unite a questa esperienza e hanno cominciato a produrre seguendo l’esempio della “casa madre”. Alla base della scelta l’equazione citata da Manzoni: si produce meglio spendendo meno e senza danneggiare l’ambiente.

Nei campi di Simbiosi e delle aziende consorziate l’uso dei concimi chimici è stato progressivamente ridotto, fino a scomparire del tutto in alcune parcelle. Anche il consumo d’acqua è calato: le colture vengono irrigate solo quando serve, sfruttando l’umidità naturale del suolo e la capacità del terreno rigenerato di trattenere meglio l’acqua piovana.

Manzoni ha cercato anche altre sinergie. In una cascina restaurata al centro della proprietà ha creato un innovation center, in cui ospita gruppi e startup che lavorano seguendo il suo stesso spirito. Nell’ampio spazio di tremila metri quadri, ci sono imprese che sperimentano nuovi materiali, soluzioni tecnologiche per l’agricoltura, modelli energetici circolari, filiere alimentari a spreco zero. Realtà diverse per competenze e provenienza, ma accomunate dall’idea che il territorio agricolo possa essere un laboratorio per innovare, non un luogo da cui estrarre valore. Ridurre gli sprechi, chiudere i cicli, creare valore condiviso: intorno a questi principi è nato il concetto di smart land, illustrato su un plastico all’ingresso del centro, in cui sono indicati i vari settori di intervento. “La smart land è intelligente perché riconfigura le relazioni tra suolo, acqua, energia e produzione, creando un modello che imita il funzionamento della natura, non solo nell’agricoltura ma anche in altre industrie, collegando tutto il territorio”, conclude Manzoni.

La domanda, a questo punto, è inevitabile: l’esperimento, partito trent’anni fa in un angolo di pianura tra Pavia e Milano è replicabile altrove? Potrebbe diventare sistematico e contribuire a invertire la rotta di un modello agricolo che mostra sempre di più la corda?

Fare scuola

Nella pianura padana, caso studio di un sistema produttivo particolarmente colpito dagli effetti della crisi climatica, la lezione di Simbiosi dovrebbe fare scuola. Ma basta allontanarsi pochi chilometri da Giussago e il modello prevalente rimane quello di sempre: monocolture di mais che si estendono a perdita d’occhio per alimentare gli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi. Frutteti ciascuno di un’unica varietà. Grandi distese di risaie.

Un’evoluzione che negli ultimi quarant’anni ha trasformato radicalmente la pianura padana e che è stata anche attivamente sostenuta dai meccanismi di erogazione dei fondi della Politica agricola comune (Pac) dell’Unione europea. Premiando chi ha più terra, i sussidi hanno favorito una progressiva concentrazione fondiaria e hanno spinto verso l’iperspecializzazione e le monocolture.

Oggi, quel modello è in affanno. I costi aumentano, la fertilità del suolo cala, il clima si ribella. Senza contare che i supermercati pagano sempre meno i prodotti agricoli.Così, qua e là nella pianura, ci sono agricoltori che si interrogano su un diverso modo di coltivare, su un rapporto rinnovato tra città e campagna e su una relazione di maggiore vicinanza tra chi produce il cibo e chi lo consuma.

Daniele Bucci è uno di questi. Si definisce una “pecora nera”. “Perché faccio l’opposto di quello che fanno tutti da queste parti”, dice ridendo. La sua storia inizia a Faenza, sulle colline tra il Lamone e il Marzeno, dove ha deciso di reinterpretare la tradizione agricola di famiglia alla luce dell’agricoltura biologica e di un nuovo rapporto tra produzione e consumo.

Quasi dieci anni fa, ha creato una comunità che sostiene l’agricoltura (Csa, dall’inglese community supported agricolture). L’idea è semplice: i soci pagano una quota e si garantiscono una parte della produzione dell’azienda. Una cassetta a settimana per tutto l’anno. In questo modo partecipano ai meccanismi produttivi e garantiscono al produttore un’entrata sicura all’inizio della stagione. “È un modo per uscire dai meccanismi contrattuali in cui il prezzo è determinato dai distributori. E per riconquistare autonomia”.

La Csa ha garantito all’azienda una base stabile, abbastanza solida da permettere a Bucci e alla moglie, Sara Sansoni, di sperimentare nuove strade. E oggi hanno deciso di spingersi oltre: immaginare un progetto capace di ribaltare il sistema di produzione tradizionale. In un casale con cinque ettari di terreno che hanno comprato sulle colline faentine, hanno avviato un processo di agricoltura rigenerativa.

Daniele Bucci, titolare dell’azienda agricola Podere Roncona a Faenza, 4 novembre 2025. (Michele Lapini)

Nel Podere Roncona, a dieci minuti di macchina da Faenza, hanno piantato diversi filari di alberi. Li hanno messi a una certa distanza gli uni dagli altri, sia per farli respirare sia per garantire lo spazio necessario a delle galline ovaiole che saranno lasciate razzolare, con una sorta di pollaio mobile. “Le loro deiezioni serviranno ad arricchire il terreno, ristabilendo quel legame stretto tra agricoltura e allevamento che esiste da diecimila anni e che solo di recente è stato spezzato”.

Hanno poi realizzato un orto e piantato altri alberi di varietà antiche. È un approccio olistico, in cui cioè l’insieme è più della somma delle parti: l’alternanza di alberi da frutto e ortaggi, siepi e pascoli, rappresenta un mosaico vivo che sfida i dettami dell’agricoltura industriale com’è stata concepita negli ultimi quarant’anni.

“Il modello produttivo ha spinto verso la specializzazione: una varietà sola, una specie sola. Ma l’agricoltura, storicamente, è sempre stata connessione tra elementi diversi”, insiste Bucci mentre dall’alto del casale che sta restaurando insieme alla moglie mostra l’estensione della tenuta e i progetti in corso. “Ricordo ancora quando mio nonno ha dato via l’ultima vacca, perché non conveniva più”.

Non è un dettaglio nostalgico: Bucci sogna di riportare le vacche al pascolo nei terreni confinanti con la sua proprietà, che vorrebbe prendere in affitto. L’obiettivo è costruire una comunità di intenti e di attività, superando la verticalità dell’impresa agricola classica per dare forma a un’impresa condivisa: “Vorrei creare una comunità più orizzontale, con attività agricole e culturali diverse, e con la partecipazione diretta della comunità al progetto”.

Questa comunità orizzontale esiste già in potenza: sono i soci attivi della Csa, che Bucci coinvolgerà nel nuovo percorso a partire dalla primavera, insieme ad altre persone del settore agricolo che spera di attrarre in un’azienda polifunzionale. Anche lui insiste sul fatto che un’agricoltura di questo tipo produce servizi fondamentali all’ecosistema – rigenera il suolo, presidia territori altrimenti destinati allo spopolamento, genera benefici ambientali diffusi – ma questi servizi non trovano ancora riconoscimento nei meccanismi di finanziamento della politica agricola comune. Il suo progetto è stato possibile solo grazie alla vittoria di un bando di Ecosia, un’azienda di Berlino che finanzia azioni per il clima, e al supporto di Slow food per piantare alcuni alberi.

Resta però aperta la questione strutturale: come costruire un modello agricolo alternativo, che premi davvero la rigenerazione su larga scala? E che spazio avrà questo modello nel futuro delle politiche europee?

Questi metodi stanno prendendo piede in molti paesi, ma incontrano ancora delle difficoltà: mancano criteri di valutazione condivisi, strumenti di misurazione riconosciuti a livello istituzionale e, soprattutto, un adeguato riconoscimento economico dei loro benefici per l’ecosistema. In altre parole, l’agricoltura rigenerativa produce valore per il suolo, per il clima, per l’acqua e per le comunità locali, ma questo valore non è ancora contabilizzato né premiato in modo sistematico.

Gli investimenti

Il quadro diventa ancora più complesso se si considera il dibattito in corso sul prossimo ciclo della politica agricola comune. Il probabile taglio dei fondi della Pac per gli anni 2028-2034, unito alla necessità di ridefinire criteri di assegnazione più stringenti sui temi ambientali, rappresenta una sfida cruciale. Per molti osservatori è un bivio: o l’Europa decide di orientare gli investimenti verso modelli realmente sostenibili o c’è il rischio di continuare a supportare modelli agricoli che già oggi mostrano di non reggere alle difficoltà. Non sorprende, dunque, che in questo scenario siano nati gruppi di lavoro, reti informali e vere e proprie alleanze che cercano di fare massa critica. Si organizza il dialogo con le istituzioni, si raccolgono dati, si prova a fare lobby per inserire la rigenerazione tra le priorità della Pac.

Bucci è attivo in uno di questi gruppi: la European alliance for regenerative agriculture (Eara), una piattaforma indipendente che riunisce agricoltori innovatori di vari paesi europei. L’obiettivo della Eara è duplice: da un lato misurare in maniera rigorosa gli effetti del modello rigenerativo, dall’altro convincere i leader politici che queste pratiche meritano investimenti strutturali.

Il rapporto pubblicato nel giugno 2025 è un esempio di come agisce l’associazione. Lo studio, condotto su decine di aziende agricole in 14 paesi europei, ha prodotto dati che non lasciano spazio a troppe interpretazioni: tra il 2020 e il 2023 l’uso dei prodotti chimici è crollato – il 62 per cento in meno di fertilizzanti sintetici e il 76 per cento in meno di pesticidi – senza intaccare la resa. Anzi, considerando non solo la quantità prodotta ma anche la qualità ecologica del suolo, l’efficienza idrica e l’energia necessaria per coltivare, i sistemi rigenerativi sono più efficienti del 33 per cento rispetto a quelli convenzionali.

Una rivoluzione, se si pensa che l’agricoltura rigenerativa è spesso percepita come un ritorno al passato o come una pratica “povera”. E invece i dati mostrano un aumento della resistenza al cambiamento climatico, una crescita della diversità vegetale superiore al 15 per cento e temperature superficiali più basse nei campi durante l’estate, segnale di un funzionamento ecologico più equilibrato.

In Italia il potenziale di questa transizione è enorme, tanto più che la situazione di partenza è critica. Secondo uno studio recente della Re Soil Foundation, l’80 per cento dei terreni agricoli mostra segni evidenti di erosione e, in molti casi, la sostanza organica non supera l’1 per cento: un livello da suoli esausti. La pianura padana è uno dei territori più vulnerabili, intrappolata da decenni in un modello di iperspecializzazione che ha privilegiato la quantità a scapito della qualità ecologica. Monocolture, lavorazioni profonde e dipendenza dai prodotti chimici hanno impoverito progressivamente il capitale naturale su cui si reggeva la produttività agricola.

In questo contesto che molti definiscono di “desertificazione agricola”, iniziano a comparire le prime crepe nella narrazione dominante. Cresce il numero di aziende – grandi e piccole, tradizionali e innovative – che scelgono di sperimentare tecniche come la minima lavorazione, l’agroforestazione, le rotazioni complesse, la gestione biologica della fertilità. Gli agricoltori che escono dai binari della produzione lineare, quelli che Bucci definisce “pecore nere”, non sono più isolati. Alcune di queste realtà, come Simbiosi o il Podere Roncona, si stanno trasformando in laboratori viventi: luoghi in cui si testa un modello agricolo capace di restituire vita al suolo e, allo stesso tempo, generare reddito stabile, relazioni sociali nuove e un diverso equilibrio tra produzione e territorio.

È forse da queste esperienze di frontiera che potrebbe ripartire il futuro dell’agricoltura italiana ed europea: non da ciò che resta del vecchio modello, ma da quello che già sta emergendo come possibile alternativa.

Questo articolo fa parte dell’indagine coordinata da Internazionale con il supporto della borsa di studio Bertha challenge. La versione inglese è pubblicata dal Green european journal.

Gli altri articoli della serie:
- Chi specula sull’energia ai danni dell’agricoltura in Emilia-Romagna
- Il ricatto dei supermercati all’agricoltura italiana
- Perché le aziende agricole della pianura padana stanno scomparendo

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