È atipico e intensamente logico il modo in cui Andrea Laszlo De Simone porta avanti il suo lavoro, proponendo forme alternative di consumo. Per l’uscita di Una lunghissima ombra (42 Records) ha previsto un ascolto collettivo in una cupola geodetica all’Angelo Mai di Roma, solo diciassette canzoni e altrettanti quadri filmici. Idealmente il disco andava sentito da sdraiati, come in un planetario: forse non è la condizione ideale, per ragioni acustiche o visive, ma Una lunghissima ombra prevede una resa del corpo quanto del pensiero senza avere la sensazione di aver perso del tutto la terra ferma. L’artista raffinato, che non fa concerti, contiene l’esposizione personale al minimo, pubblica ep, componimenti e dischi quando sente che il momento di lasciarli andare è arrivato – per un’ecologia del suono, che da postura etica se vogliamo si fa anche parametro estetico, perché permette al lavoro di diventare bello sfruttando le proprietà del tempo che passa –, si conferma qui in tutto quello che è stato, senza essere derivativo, neanche rispetto a se stesso. I componimenti di Andrea Laszlo De Simone si riconoscono, hanno un che di familiare rispetto alle nostre idee (o ai nostri falsi ricordi) sulle pastorali radiofoniche anni sessanta e le timidezze sgraziate cifrate nel modo di cantare di Franco Battiato, ma sono anche pensati per risultare freschi di volta in volta. Malgrado sia schivo e defilato, con Una lunghissima ombra il cantautore offre delle piccole fughe barocche interessate a un sollievo collettivo e a Un momento migliore. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati