Il mio amico Francesco Carfagna, poeta prestato all’arte della vinificazione, mi ha fatto notare che il vino, una volta cominciata la fermentazione, “canta”. È proprio così: se si accosta l’orecchio prima al tino e poi al vetro della damigiana si sente uno sfrigolio, che rappresenta il passaggio degli zuccheri ad alcol ed è una specie di melodia della trasformazione. È forse da questo ribollire sonoro prima del canto che il luogo di fermentazione, conservazione e poi di mescita si chiama cantina. Ogni “re della cantina” sa che la gloria effimera che ci attraversa passando dal vino porta al canto. Nella liberazione dalle catene del contingente, nell’accesso al tempo mitico che ogni ebbrezza regala, c’è un moto di verità dell’animo che spesso il canto racchiude. Ed è forse per questo che le antiche popolazioni solevano legiferare due volte, da ebbre e da sobrie, per valutare l’attendibilità di quella verità, senza ignorarla. Il processo di fermentazione si completa poi con la separazione del fiore e della feccia. Il fiore affiora, sale in superficie, il residuo, la feccia, va in basso e aderisce al fondo. Tutto quel che è prossimo al suolo è per principio fisico più stabile, ma non significa che sia migliore. Lo stesso avviene a livello sociale. La stabilità di un governo è maggiore se basata sull’immobilità e sull’aderenza al basso. Chi cerca l’altezza è per natura più instabile e fragile, ma più vicino alla luce.

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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati