Alla vigilia della sua partenza per un viaggio in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, Donald Trump è riuscito a fare un piccolo miracolo: ha ottenuto la liberazione di Edan Alexander, l’unico ostaggio di nazionalità statunitense ancora in vita tra i sequestrati rimasti nelle mani di Hamas a Gaza. Il ragazzo è stato rilasciato il 12 maggio e ha riabbracciato i suoi genitori arrivati dal New Jersey. Dovrebbe essere una notizia universalmente gradita, se non fosse che Washington ha negoziato direttamente con Hamas, l’organizzazione che Israele vorrebbe cancellare.
Benjamin Netanyahu non ha certo fatto i salti di gioia. La settimana scorsa si era verificato lo stesso scenario quando gli Stati Uniti avevano negoziato un cessate il fuoco con i ribelli huthi in Yemen, che non colpiranno più le navi commerciali di passaggio nel Mar Rosso. Tel Aviv ha scoperto che l’accordo lasciava liberi i guerriglieri sciiti, però, di continuare a colpire il territorio israeliano.
Mentre Trump parte per il Golfo, pronto per firmare contratti miliardari, Israele “si innervosisce”, come hanno scritto alcuni commentatori dello stato ebraico. Netanyahu pensava di poter contare su un solido alleato alla Casa Bianca, ma ha scoperto a sue spese che Trump privilegia sempre i propri interessi.
Il presidente statunitense resta saldamente al fianco di Tel Aviv e lo ha dimostrato ampiamente negli ultimi quattro mesi. Tuttavia, quando deve scegliere tra un alleato e i propri interessi, non ci pensa un attimo.
Il suo viaggio in Medio Oriente ne è la dimostrazione. Finora Trump aveva cercato di riavvicinare i suoi due principali alleati nella regione, l’Arabia Saudita e Israele. Durante il suo primo mandato, il regno wahabita era rimasto fuori dagli accordi di Abramo, che hanno stabilito relazioni diplomatiche tra diversi stati arabi e Israele. Fino a poco tempo fa Riyadh non escludeva la possibilità di aderire agli accordi, ma con la tragedia di Gaza e la rioccupazione annunciata della Striscia questo non è più possibile. Persino il principe ereditario Mohammed Bin Salman deve tenere conto del parere dell’opinione pubblica.
Gli israeliani hanno appreso che durante la visita verrà firmato con i sauditi un accordo sul nucleare civile senza il loro consenso preliminare, come invece era previsto. Per lo stato ebraico si tratta di uno smacco significativo.
L’Iran è il principale argomento di disaccordo tra Tel Aviv e Washington. Tre mesi fa Netanyahu è stato colto di sorpresa nello Studio Ovale quando Trump ha annunciato un negoziato con Teheran sul nucleare, mentre Israele preferirebbe un’azione militare. “È il momento migliore per distruggere il complesso arsenale iraniano”, hanno ripetuto fino a ieri i funzionari dello stato ebraico.
Non soltanto gli Stati Uniti e l’Iran sono arrivati al quarto giro di trattative (finora senza risultati), ma i paesi del Golfo dove si recherà Trump sono diventati sostenitori del negoziato, laddove in precedenza mantenevano una posizione ferocemente anti-iraniana. Parlando con il presidente statunitense, i rappresentanti di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti non chiederanno l’uso della forza contro Teheran, nel timore di scatenare il caos nella regione.
In tutto questo, Israele ha incassato anche la notizia che Mike Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, è stato sollevato dall’incarico per aver discusso piani militari contro l’Iran con Tel Aviv.
I rapporti tra lo stato ebraico e l’amministrazione statunitense restano sostanzialmente buoni, ma Netanyahu ha imparato una lezione che vale per tutti gli alleati di Washington: Trump non è a priori “pro” o “contro” nulla. È sempre e soltanto pro Trump.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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