Marcello Pini è il coordinatore sindacale dei Si Cobas di Modena. Per il suo lavoro e la sua attività sindacale oggi è coinvolto in quindici processi. Le accuse contro di lui sono manifestazione non autorizzata, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale. Tutti reati che dalla fine degli anni novanta sono stati al centro della discussione politica, fino all’approvazione dell’ultimo decreto sicurezza, entrato in vigore il 12 aprile e convertito in legge dal parlamento il 9 giugno, nonostante i pareri negativi di autorità internazionali, come il Consiglio d’Europa, e di importanti giuristi, come Patrizio Gonnella, di Antigone, che lo hanno definito “il più grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”.

“In effetti questo atteggiamento repressivo verso le lotte sindacali dura da anni. L’attacco più grande finora era venuto dai decreti sicurezza di Matteo Salvini nel 2018-2019. In quegli anni una repressione molto dura ha colpito i lavoratori, gli operai e i sindacalisti”, racconta Pini. Nel modenese oggi ci sono circa 650 lavoratori e sindacalisti del Si Cobas sotto processo per le loro rivendicazioni sindacali, portate avanti con picchetti davanti alle fabbriche, blocchi stradali e cortei non sempre autorizzati.

“Questo significa un notevole impegno economico per il sindacato (che copre le spese legali, ndr) e un grande stress per la persona che deve affrontare per anni lunghissimi processi. Ma le conseguenze più grandi le pagano i lavoratori stranieri, che a causa di questi processi non ottengono la cittadinanza”, racconta Pini. Il suo primo processo risale al maggio 2018, per la vertenza con l’Opera Group, un’azienda di ceramiche della zona che poi ha chiuso. Ma il caso più eclatante è stato quello della battaglia sindacale con l’Italpizza, andata avanti dal dicembre 2018 al settembre 2019.

“Chiedevamo contratti più giusti e alla fine c’è stato un accordo che ha riconosciuto le nostre ragioni, dopo mesi di proteste e di picchetti, di scioperi e di manifestazioni davanti alla fabbrica di San Donnino, a Modena. Ma la repressione è stata violentissima: ci manganellavano, lanciavano lacrimogeni per fare uscire i camion dall’azienda a tutti i costi, ci sono stati dei feriti tra gli operai e a un certo punto abbiamo pensato che si volesse cercare il morto”, racconta Pini. In quella vicenda sono state denunciate circa ottante persone per manifestazione non autorizzata, blocchi stradali, invasione di edificio privato e resistenza a pubblico ufficiale. Alcuni processi sono ancora in corso.

“Ora se ne sta svolgendo uno in cui ci sono 56 imputati e sono stati convocati più di cento testimoni”, continua Pini. “Il 13 maggio c’è stata la prima udienza, perché nel frattempo qualche reato è andato in prescrizione. Nei video proiettati in aula si vedeva chiaramente che non c’era violenza degli operai. L’unica violenza erano le manganellate, i lacrimogeni, i camion che cercavano di uscire dallo stabilimento a ogni costo. Il processo è imbarazzante per le forze dell’ordine. Ma la cosa più imbarazzante è che, anche se l’azienda ha riconosciuto le rivendicazioni dei lavoratori, a distanza di anni chi ha protestato deve ancora affrontare quelle accuse. Solo la parte dei processi che riguardavano i blocchi stradali è stata archiviata”.

Ora l’ultimo decreto sicurezza prevede pene perfino più severe per molti di questi reati, per esempio il blocco stradale è punito con la reclusione “fino a un mese o la multa fino a trecento euro” e, se partecipano più persone insieme, “con la reclusione da sei mesi a due anni”.

Pini è categorico: “Noi come sindacato rifiutiamo queste restrizioni. Continueremo a protestare e ad affrontare i processi, non ci facciamo intimidire. La domanda è: ‘Siete sicuri di volerci mettere tutti in galera?’. Se fossero applicati alla lettera, questi decreti porterebbero a incarcerazioni di massa di sindacalisti, di lavoratori e di manifestanti in generale”.

Un buon esempio di quello che potrebbe succedere, sostiene Pini, è l’ultimo corteo organizzato dai sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) a Bologna. Il 20 giugno diecimila metalmeccanici hanno formato un corteo e hanno attraversato la tangenziale della città, bloccando il traffico. La manifestazione era formalmente autorizzata dalla questura di Bologna, ma durante la protesta, i sindacati organizzatori hanno deciso di cambiare il percorso per lanciare un segnale più forte. La protesta riguardava la scadenza del contratto nazionale dei metalmeccanici e le trattative con l’associazione di categoria Federmeccanica sono ferme da mesi.

Intorno alle dieci, quindi, è avvenuta la deviazione che è stata concessa verbalmente dagli ufficiali di pubblica sicurezza che erano sul posto. La questura avrebbe dato un via libera informale alla deviazione a due condizioni: che il corteo non rimanesse più di 45 minuti all’interno della tangenziale e che i manifestanti non usassero fumogeni. Così è stato e gli agenti hanno accompagnato il corteo sul nuovo tragitto. Ma la questura di Bologna ha diffuso una nota, mentre il corteo era ancora in corso, avvertendo che i manifestanti sarebbero stati denunciati penalmente. Nelle ore successive la stessa questura ha leggermente ritrattato, spiegando che l’azione dei manifestanti sarebbe stata riferita “solo per doveroso adempimento, alla competente autorità giudiziaria per le valutazioni di legge”. “Come possono pensare di incarcerare tutti? Non è una domanda che si fanno solo i sindacati di base, ma anche i sindacati confederali”, conclude Pini.

Anche Giacomo Baggio, 34 anni, consulente legale e attivista del gruppo ambientalista Ultima generazione, è convinto che ci sia continuità tra i precedenti decreti e l’ultima norma sulle proteste approvata dal governo Meloni. Baggio partecipa dal 2023 alle azioni di Ultima generazione, soprattutto ai blocchi del traffico a Roma con l’apertura di striscioni che portano l’attenzione sul cambiamento climatico e chiedono iniziative concrete per fermarlo.

“Le nostre sono azioni non violente e di disobbedienza civile. Ci sediamo per strada, blocchiamo il traffico per qualche minuto, apriamo gli striscioni, a volte coloriamo l’acqua delle fontane con vernici che non inquinano e si dissolvono subito”, racconta. Ma il suo attivismo gli è costato caro: a gennaio del 2023 ha dovuto affrontare la prima denuncia, da quel momento gliene sono arrivate altre venti per manifestazione non autorizzata, resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale.

“I processi sono ancora tutti in corso, ma la conseguenza più grave è stata la richiesta di sorveglianza speciale a ottobre del 2024”, spiega Baggio. La sorveglianza speciale consiste nell’obbligo di rimanere in casa dalle 20 alle 7, di non poter uscire dal luogo di residenza e di non poter partecipare a nessun tipo di manifestazione, non solo politica, ma neanche musicale, sportiva o religiosa. Baggio è stato condannato a subire queste restrizioni per due anni. “Da quando Ultima generazione è nata nel 2021 abbiamo visto una serie di leggi fatte apposta per fermare gli attivisti e ora questo decreto contiene anche delle misure specifiche, le cosiddette ‘misure anti-Ghandi’. Ci aspettiamo un inasprimento ulteriore, ma continueremo a protestare”, continua.

Gli attivisti di Ultima generazione che sono stati raggiunti da denunce, daspo (il divieto di accedere a determinati luoghi o eventi), fogli di via e altre misure restrittive per le loro attività di protesta sono circa duecento. Un’altra figura simbolo di un lungo processo di criminalizzazione è Nicoletta Dosio, storica attivista del movimento No Tav, condannata a un anno di arresti domiciliari che ha finito di scontare a maggio del 2025. Il capo d’imputazione era violenza a pubblico ufficiale per aver buttato giù dei jersey che bloccavano una strada a Chiomonte, in val di Susa, durante una manifestazione pacifica a giugno del 2015.

“Il movimento è ancora vivo nonostante l’accanimento giudiziario. Continua a esistere e a resistere. Anche se la situazione a livello generale è sempre più buia”, ha detto Dosio in un’intervista recente. Ma il movimento contro l’alta velocità è stato un grande laboratorio per sperimentare una serie di misure repressive. Lo sostiene Xenia Chiaramonte, docente associata all’università Ca’ Foscari di Venezia, che al tema dei No Tav italiani ha dedicato il libro Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No Tav (Meltemi 2019).

“Contro il movimento No Tav da più di dieci anni è stato usato il processo penale, che a sua volta ha cambiato natura, cioè è stato usato contro dei fenomeni e non contro dei reati. Il processo penale è passato da essere il luogo in cui si accertano i fatti criminosi a uno strumento di lotta di alcuni fenomeni considerati devianti”, sostiene Chiaramonte. Secondo la docente, l’ultimo decreto sicurezza fa un salto di qualità: “Una legge di questa portata vuole toccare tutte le questioni politiche giudicate problematiche. C’è un articolo nel decreto (l’articolo 19) che sembra scritto apposta contro il movimento No Tav e chi contesta le grandi opere. Poi c’è la norma che trasforma l’imbrattamento in danneggiamento aggravato e sembra fatta per i movimenti ecologisti Ultima generazione ed Extincion rebellion. È come se si fosse partiti dallo studio delle lotte esistenti per scrivere delle regole che le limitano. Infine il decreto sicurezza istituisce una forma di protezione molto forte per l’operato delle forze dell’ordine”.

Per Chiaramonte la giustizia penale diventa addirittura “preventiva” e cioè prevede delle misure per punire azioni che non sono state ancora compiute: “In questo senso misure amministrative come i daspo e la sorveglianza speciale, che esistevano già prima del decreto, servono a evitare che i manifestanti e gli attivisti partecipino alle manifestazioni”. Secondo la docente anche se apparentemente il diritto di protesta continua a essere garantito, si sta di fatto affermando una specie di “reato politico”, una criminalizzazione del dissenso: “Si prova a colpire i gruppi di attivisti e dissidenti come se fossero organizzazioni criminali, con gli stessi strumenti”.

Uno degli effetti del nuovo decreto sicurezza, secondo Chiaramonte, sarà quello di tenere lontane dalle piazze le persone meno politicizzate, i gruppi più larghi, mentre quelli più attivi continueranno a scendere in piazza, assumendosi il rischio di incarcerazioni di massa o denunce. “Il governo Meloni si è trovato la strada spianata”, conferma Federica Borlizzi, giurista e ricercatrice di giurisprudenza all’università Roma tre e rete A pieno regime.

“Le prime ordinanze securitarie sono state fatte alla fine degli anni novanta, il primo pacchetto sicurezza è del 2008 ed è stato voluto dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni”, spiega. Queste disposizioni contenevano in sintesi quello che poi è stato sviluppato in seguito e che viene sistematizzato dal decreto sicurezza approvato dal governo Meloni.

“Se siamo arrivati a questo punto è stato perché da vent’anni si insiste sulla costruzione di una certa idea di sicurezza che da una parte reprime il dissenso e dall’altra criminalizza i marginali. Ma questo è un lungo percorso cominciato con il pacchetto sicurezza di Maroni nel 2008, poi dai decreti sicurezza Minniti-Orlando nel 2017, quindi i decreti Salvini nel 2018-2019, infine il decreto Lamorgese nel 2020”, continua Borlizzi, che tuttavia definisce il nuovo decreto sicurezza “un cambio di paradigma in Italia nel rapporto tra stato e società civile”, con una forte erosione dello stato di diritto. “Questo lo dicono gli organizzazioni internazionali come l’Osce, il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite, che hanno segnalato le violazioni dei diritti fondamentali di questo decreto”, spiega.

“C’è un altro punto allarmante: abbiamo un ritorno alla sacralità del ruolo delle forze di polizia rispetto alla società civile, come in epoca fascista. Nel caso di resistenza a un agente o a un ufficiale di pubblica sicurezza è prevista una pena fino a dieci anni di carcere, mentre l’omicidio colposo è punito in Italia con una pena massima di sei anni di carcere. Questo ci fa capire la sproporzione”, continua Borlizzi.

Le tre questioni che manifestano una continuità dell’ultimo decreto sicurezza con quelli dei governi precedenti sono gli imbrattamenti, i blocchi stradali e il reato di occupazione. “Il sistema repressivo si è adattato a delle forme di lotta, sono state create delle fattispecie di reato ad hoc. È stato studiato quello che faceva il movimento ambientalista e altri movimenti e poi sono state approvate delle norme per colpirli e criminalizzarli. E questo”, conclude Borlizzi, “è il segno che stanno diventando sempre di più le azioni considerate illecite e violente”.

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