Sono passati ventotto anni dallo spillout di un virus che ha trasformato la maggioranza dei sudditi della corona in bestie rabbiose, decimando la popolazione della Gran Bretagna, come raccontato nel 2002 da Danny Boyle nel film 28 giorni dopo. Con 28 anni dopo, terzo film che sfrutta quello spunto, il regista britannico torna al comando delle operazioni insieme al suo complice Alex Garland, sceneggiatore anche del primo film. In mezzo, nel 2007, Juan Carlos Fresnadillo aveva firmato un “sequel”, 28 settimane dopo, di cui Boyle e Garland erano stati solo produttori.
Veloce dispaccio da Nerdland: così come non si dovrebbe parlare di “zombi” per definire gli “infetti”, non si dovrebbe neanche parlare di sequel perché in alcuni dettagli, gli autori hanno volutamente inserito elementi di discontinuità fra i tre film. Non diciamo di più per non fare spoiler, vi basterà sapere che i dettagli in questione riguardano la diffusione del virus fuori dal Regno Unito.
In ventotto anni il Regno Unito è stato rispedito praticamente al medioevo, ma forse anche prima. Facciamo la conoscenza di un gruppo di sopravvissuti, barricati su un’isoletta unita alla terra ferma da una lingua di terra che si può percorrere solo con la bassa marea. Una comunità basata su allevamento, un po’ di agricoltura, lo sciacallaggio sistematico e la costruzione di una mitologia d’accatto, tutta british, in cui gli arcieri di Enrico V incontrano la fiera “resistenza” ai blitz della Luftwaffe.
Spike (Alfie Williams), dodici anni, deve affrontare una specie di rito iniziatico, nei fatti una sorta di battuta di caccia sulla terraferma in cui, accompagnato dal padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson, scelta perfetta visto che l’attore britannico primeggia quando risulta antipatico), dovrà uccidere i suoi primi infetti con l’arco e provare che può essere un brav’uomo di casa. Padre e figlio, a casa, lasciano la madre di Spike, Isla (Jodie Come), gravemente malata.
La situazione sulla terraferma non è esattamente rosea. Capiremo che gli infetti a modo loro si evolvono, che la Gran Bretagna è stata completamente abbandonata a se stessa ma che forse anche lì, nonostante tutto, c’è ancora qualche traccia di umanità. Rispetto al primo film, 28 anni dopo è molto più horror. Ci sono scene decisamente violente, di quelle che fanno distogliere lo sguardo. Ma c’è anche l’ironia immancabile dei film di Boyle e tanti spunti di riflessione.
Come in altre occasioni Boyle e Garland giocano con una storia irreale, quasi fantascientifica, in questo caso post-apocalittica, per raccontare la nostra realtà. Per esempio, nel montaggio di frammenti che illustra la “mitologia” su cui si fonda la comunità di Spike è facile individuare le scorciatoie dell’ignoranza, della superstizione e della propaganda proprie di un certo populismo. Impossibile non avvertire l’ironia sull’isolamento britannico post-Brexit. Da brivido gli accenni all’importanza della memoria e dell’arte, così come del nostro rapporto con la morte come misura della civiltà.
È già in cantiere un secondo capitolo di quella che, se il film incasserà abbastanza, diventerà una trilogia. 28 anni dopo. Il tempio delle ossa, diretto da Nia DaCosta (Little woods, The Marvels) dovrebbe uscire a gennaio del 2026. Se tutto andrà come deve, la terza parte sarà diretta di nuovo da Danny Boyle e si vocifera di un ritorno di Cillian Murphy nei panni di Jim, ruolo che lanciò la sua carriera quasi ventotto (in realtà poco più di ventidue) anni fa. Ultima cosa, nonostante la Brexit e nonostante sia un prodotto Sony, il film è considerato europeo e quindi il biglietto costa 3,50 euro.
Questo testo è tratto dalla newsletter Schermi.
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