Il prezzo del petrolio è sempre un problema, soprattutto per l’ambiente: quando è troppo basso, spinge i consumatori a usarne di più e riduce gli incentivi a investire nelle fonti rinnovabili. Quando è più alto, incoraggia i produttori a estrarne di più, o a cercare nuove tecniche estrattive (dalle rocce invece che dai pozzi), ma rende anche più interessanti le tecnologie verdi e spinge verso l’efficienza. Complica le cose il fatto che la produzione sia gestita da un cartello di paesi che fa calcoli geopolitici, non solo economici. L’Opec+ (che include la Russia) ha deciso – a sorpresa – di aumentare la produzione di 960mila barili al giorno nel secondo trimestre del 2025. L’ha fatto, pare, per punire l’Iraq e il Kazakistan perché non rispettavano le quote d’estrazione (producevano di più per arricchirsi a spese degli alleati). Ma c’è anche il ragionamento dell’Arabia Saudita, leader del gruppo, che vuole aiutare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sull’inflazione: con il petrolio più economico, la benzina degli statunitensi costa meno. In più, si riducono gli incentivi a nuovi progetti d’estrazione dalle rocce negli Stati Uniti, che diventeranno un po’ più dipendenti dal petrolio del golfo. L’unica notizia positiva è che la Russia avrà un po’ meno soldi per continuare la guerra in Ucraina. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati