Paul Biya, 92 anni, è stato rieletto in Camerun per un ottavo mandato settennale.
Alassane Ouattara, 83 anni, è stato rieletto in Costa d’Avorio per un quarto mandato quinquennale.
In entrambi i paesi la metà della popolazione ha meno di diciotto anni.
Le elezioni presidenziali in due stati cruciali dell’Africa francofona alimentano forti dubbi, non solo a causa dell’età dei vincitori. Il voto evidenzia la difficoltà di diversi paesi africani a produrre alternanze pacifiche e a rinnovare le proprie élite quando chi detiene il potere non vuole separarsene.
Nel 1980 il presidente senegalese Léopold Sedar Senghor aveva fatto scalpore diventando il primo leader del continente africano ad aver scelto di lasciare volontariamente il potere, senza pressioni delle piazze o dell’esercito. All’epoca i suoi colleghi erano furiosi, perché dava il cattivo esempio. Dopo aver governato per vent’anni il Senegal dopo l’indipendenza, Senghor aveva ritenuto più saggio passare il testimone alla generazione successiva.
Due anni dopo, Paul Biya conquistava la presidenza del Camerun. Da allora sono passati 43 anni, e Biya è ancora al suo posto. È un record mondiale.
Un percorso diverso è possibile
Sia in Camerun sia in Costa d’Avorio, i giochi erano fatti prima ancora del voto. In Camerun il principale avversario di Biya, Issa Tchiroma Bakary, si è proclamato vincitore ma la corte suprema, vicina al governo, ha assegnato la vittoria a Biya. Ci sono stati vari incidenti per le proteste contro il risultato, ma Biya è inamovibile anche se passa buona parte dell’anno a curarsi in Svizzera e il suo paese vive al ritmo delle voci sul suo stato di salute.
In Costa d’Avorio, che ha già vissuto una guerra civile in seguito a elezioni contestate, l’ex presidente Laurent Gbagbo e l’uomo d’affari Tidjane Thiam, principali rappresentanti dell’opposizione, non hanno potuto nemmeno candidarsi. Come era prevedibile, il presidente uscente ha vinto con il 90 per cento dei voti.
Nessuno è convinto della regolarità delle due elezioni né delle spiegazioni degli interessati, insostituibili uomini della provvidenza, per rimanere aggrappati al potere.
Negli ultimi mesi diversi paesi sono stati scossi dal vento di rivolta della generazione Z, le persone nate tra la fine degli anni novanta e la fine degli anni duemila. Nonostante il carattere spontaneo e poco strutturato dei movimenti, alla fine alcuni governi sono caduti, come in Nepal e in Madagascar.
Il problema non è tanto il fatto che Ouattara e Biya abbiano rispettivamente 83 e 92 anni, ma l’immobilismo politico che ha favorito la longevità dei leader. Quando l’alternanza è impossibile, si procede per altre vie, ovvero le proteste di piazza o i colpi di stato militari. O entrambi, come è successo in Madagascar.
L’Africa non è condannata a questa impasse. Il Senegal, che ha attraversato diverse alternanze democratiche (di cui l’ultima l’anno scorso nonostante alcune tensioni), dimostra che un percorso diverso è possibile. Lo stesso vale per il Ghana anglofono, un altro paese dell’Africa occidentale.
La questione della democrazia resta attuale in Africa, non per imitazione di un occidente che non può permettersi di dare lezioni a nessuno, ma per rispondere alle aspirazioni di una popolazione giovane e stanca di vedere “sempre lo stesso presidente”, come cantava Michel Delpech.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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