In un primo momento Zora Schelbert, direttrice operativa e guida turistica del bunker nucleare di Sonnenberg, nella città svizzera di Lucerna, ha pensato di essere vittima di uno scherzo. Era il febbraio 2022 e la Russia aveva appena sganciato le prime bombe su Kiev. “Molte persone hanno cominciato a contattarmi per chiedermi come comportarsi e dove andare”, racconta. Ben presto Schelbert ha capito che avevano confuso la società storica per cui lavora, Unterirdisch Überle­ben (Sopravvivere sottoterra), con il dipartimento della protezione civile locale.

La Svizzera, paese che da sempre suscita il fascino, lo stupore e talvolta l’invidia dei suoi vicini europei, ha una popolazione di circa nove milioni di persone e una quantità di bunker pro capite superiore a quella di tutti gli altri stati del mondo. I bunker sono talmente numerosi da garantire un rifugio a ogni singolo abitante della confederazione in caso di crisi (la Svezia e la Finlandia si piazzano al secondo posto, con la capacità di ospitare nei bunker i residenti di tutte le grandi città). Le persone che avevano contattato Schelbert nel 2022 erano molto preoccupate e volevano sapere quale fosse il bunker che gli era stato assegnato.

In realtà oggi quello di Sonnenberg funge soprattutto da museo. Costruito nel 1971 per mettere al sicuro fino a ventimila persone, è stato uno dei rifugi antiatomici più grandi del mondo fino al 2002, quando la sua capienza è stata ridotta a duemila persone per migliorare l’efficienza e ottimizzare i costi. “Naturalmente ho risposto con la massima serietà”, racconta Schelbert, spiegando di aver inoltrato le richieste agli uffici competenti. “Ma le email continuavano ad arrivare, e anche le telefonate”.

Torna la paura

Davanti all’inesorabile aggressione da parte dell’esercito russo e alla luce della contemporanea scomparsa del sostegno diplomatico e militare degli Stati Uniti, i paesi europei stanno ricominciando a investire pesantemente nella difesa. Nel frattempo l’attività di protezione civile – ovvero le misure non militari per la difesa della popolazione, tra cui la costruzione di rifugi antiaerei e antiatomici – è tornata a essere una priorità. Nel gennaio del 2025 la Norvegia ha introdotto l’obbligo di costruire rifugi antiaerei in tutti i nuovi edifici residenziali, una norma che ricorda l’epoca della guerra fredda e che in Svizzera è in vigore dal 1963. In Germania, paese dove di recente è stata approvata una legge per stanziare miliardi di euro per le spese militari, il problema di dove e come costruire nuovi bunker è tornato al centro del dibattito pubblico.

Ispirata dall’attività di Germania e Norvegia, a marzo di quest’anno l’Unione europea ha diffuso un comunicato ufficiale in cui invitava i cittadini del vecchio continente a tenere a disposizione in qualsiasi momento provviste sufficienti per 72 ore nel caso di un attacco. Il rischio di una guerra e di un disastro provocato dall’essere umano non è mai sembrato così reale dalla fine della guerra fredda.

In Svizzera il rinnovato interesse per la protezione dei civili è un indicatore di uno spostamento di percezione tra l’opinione pubblica, più che il segnale di una svolta politica. Prima del 2022 “gran parte della popolazione e anche alcuni politici ritenevano che i rifugi non fossero necessari”, spiega Daniel Jordi, direttore della protezione civile federale svizzera. “Ora la situazione è cambiata”. Silvia Berger, professoressa di storia svizzera e contemporanea all’università di Berna ed esperta della storia culturale dei bunker, conferma che l’invasione russa dell’Ucraina ha influito parecchio su come è visto il ruolo della protezione civile.

I segni sul muro indicano quante persone possono entrare nel bunker, Sonnenberg, Svizzera, settembre 2006 (Sebastian Derungs, Reuters/Contrasto)

Uno a testa

La politica svizzera di garantire un rifugio a ogni cittadino nel caso di una crisi è stata introdotta più di sessant’anni fa, ma ancora oggi un edificio residenziale di nuova costruzione deve comprendere un bunker. In alternativa gli imprenditori edili devono destinare fondi sufficienti a mantenerne uno nelle vicinanze gestito dallo stato. Per questo in Svizzera esistono 370mila rifugi sotterranei capaci di proteggere i civili per un arco di tempo compreso tra poche ore e due settimane. I sistemi di ventilazione hanno un’autonomia di circa quarant’anni e possono neutralizzare gli effetti delle radiazioni, del materiale radioattivo e delle armi chimiche o biologiche.

La spesa pro capite per la manutenzione e la costruzione di queste strutture, sostenuta in gran parte dagli imprenditori edili, è paragonabile a quella annuale per l’assistenza sanitaria. Storicamente il costo per ogni singolo posto in un bunker è di 1.400 franchi svizzeri (circa 1.500 euro) in quelli con capienza compresa tra cinquanta e duecento persone, o tremila franchi per quelli più piccoli. In tempo di pace la maggior parte degli svizzeri li usa come cantina per i vini, magazzino o sauna. Negli anni novanta, quando le tensioni della guerra fredda sono progressivamente svanite, sono stati usati (suscitando polemiche) per ospitare i profughi, i richiedenti asilo e i senzatetto.

“È quello che volevamo”, sottolinea Jordi parlando degli usi accessori dei bunker. “Un sistema che abbia un’utilità quotidiana ma che, nel caso di un evento catastrofico, possa essere rapidamente riconvertito in una rete di aree protettive”. Le normative attuali prevedono che i bunker siano pronti per l’utilizzo entro cinque giorni. Parlando di questo periodo di “preavviso”, Jordi ricorda che “le guerre non scoppiano da un giorno all’altro senza avvisaglie”.

A Ginevra il palazzo in cui vivo è dotato di un tipico bunker residenziale, anche se fino al momento dell’invasione russa dell’Ucraina non sapevo che fosse operativo. In quel periodo alcuni amici hanno deciso di fare le valigie e hanno cominciato ad accumulare riserve di iodio (nei cantoni le unità della protezione civile devono assicurarsi di avere una quantità di iodio sufficiente per l’intera popolazione, in modo da contrastare gli effetti dell’esposizione alle radiazioni). Negli stessi giorni ho anche scoperto l’espressione “sei un bambino di Černobyl”, che sostanzialmente equivale a “non hai la testa a posto”.

In caso di un attacco atomico i civili occuperebbero il tunnel, sigillato con quattro porte di cemento spesse un metro e mezzo

E così sono scesa nello scantinato del mio palazzo, in cui vivono più di cento famiglie, e ho visitato il nostro bunker antiatomico, che oggi è diviso in dieci caves (magazzini) separate da pareti di legno. Una porta di cemento armato dipinta di verde, spessa trenta centimetri e sempre aperta, si chiude ermeticamente con l’aiuto di un pesante meccanismo. Al centro del pavimento c’è uno scarico. La cave dei miei vicini di casa è piena di attrezzature da sci e pentolame. La mia, invece, contiene valige ed elettrodomestici statunitensi che funzionano con un voltaggio diverso da quello europeo, e probabilmente non avrebbero una grande utilità nel caso di un attacco nucleare. Se fossimo in pericolo di vita, immagino che potremmo liberare lo spazio nel giro di poche ore.

Gita sottoterra

L’ingresso del bunker di Sonnenberg si trova a circa 15 minuti a piedi dalla stazione centrale di Lucerna. Sono arrivata in una mattinata piovosa, di domenica, dopo aver camminato lungo la riva del lago ghiacciato (piena di turisti armati di pesanti teleobiettivi panoramici) percorrendo le strade di ciottoli del centro, le colline circostanti e fino a un parco giochi reso verdissimo dalle piogge degli ultimi giorni. Una rampa di cemento appena oltre le altalene mi ha portata fino a una serie di pesanti porte grigie incastonate nel fianco di una collina. Se non fossi stata alla ricerca dell’entrata di un rifugio antiatomico avrei potuto facilmente pensare che si trattasse di un’infrastruttura pubblica più ordinaria, come un impianto per la depurazione dell’acqua.

Quel giorno ero in un gruppo di circa venti persone arrivate per una visita guidata del bunker di Sonnenberg, organizzata dalla Unterirdisch Überleben. Oltre a Schelbert, la nostra guida, eravamo solo cinque donne, me compresa. Un padre venuto insieme al figlio di 13 anni ha osservato scherzando che evidentemente l’interesse per i bunker è un fenomeno maschile. Il figlio, per esempio, aveva insistito per visitarlo dopo che il fratello minore era tornato entusiasta da una gita scolastica alla struttura, poche settimane prima. La loro famiglia vive in una casa costruita negli anni trenta nel centro di Lucerna, dunque non può contare su un bunker privato. Il padre ha ammesso di non avere idea di quale sia il rifugio pubblico a cui è stata assegnata la sua famiglia. “Siamo persone interessate soprattutto alla musica”, ha detto nel tentativo di giustificarsi.

Oltre a padre e figlio, c’erano due turisti arrivati da Londra, una famiglia austriaca composta da quattro persone (interessate al bunker dopo aver visto un documentario in tv), un gruppo di ragazzi in gita domenicale, una coppia di mezza età proveniente dalla vicina Aarau e due svizzeri sulla trentina, molto attenti e con indosso scarpe da trekking. All’ultimo minuto si è unita una ragazza norvegese insieme al padre anziano. Quando siamo entrati, il componente più infervorato del gruppo, uno svizzero con una macchina fotografica che sembrava molto costosa, si è offerto volontario per chiudere la fila, attardandosi spesso per scattare qualche foto.

In realtà quello che abbiamo visitato è l’ex centro di comando, una costruzione sotterranea di cemento disposta su sette livelli dove eventualmente le squadre d’emergenza avrebbero dovuto eseguire le operazioni logistiche e tecniche per consentire la sopravvivenza di ventimila persone sottoterra. Il bunker vero e proprio, infatti, è costituito dalle quattro corsie di traffico frenetico sotto i nostri piedi, ovvero un’autostrada sotterranea.

Il tunnel di Sonnenberg è stato progettato negli anni settanta per snellire il traffico nella regione montuosa della Svizzera centrale, ma quando è stato deciso di potenziare la protezione civile le corsie sono state rafforzate per poter servire come rifugio di emergenza. In caso di un attacco atomico il traffico sarebbe interrotto e i civili occuperebbero il tunnel, che sarebbe sigillato con l’aiuto di quattro porte di cemento spesse un metro e mezzo e capaci di reggere l’impatto di una bomba nucleare esplosa a meno di un chilometro di distanza. Il centro di comando situato sopra il tunnel conteneva attrezzature sufficienti (450 tonnellate) per gestire un piccolo villaggio, compresi letti a castello, bagni chimici, acqua e altre provviste, il tutto pronto a essere trasferito nei tunnel attraverso alcuni carrelli su rotaie.

Allestire una piccola città in una notte è un’impresa proibitiva. Mentre i bunker più moderni sono progettati per essere attivati nell’arco di cinque giorni (a volte anche meno), per Sonnenberg è previsto un preavviso di due settimane. Nell’unico collaudo mai effettuato, nel 1987, le squadre di emergenza avevano allestito solo una piccola parte dell’infrastruttura e non erano riuscite a chiudere una delle quattro porte da 350 tonnellate. Rimasta socchiusa, quella porta probabilmente non avrebbe garantito alcuna protezione se una testata atomica fosse esplosa nelle vicinanze. Quel fallimento aveva sollevato forti dubbi sull’opportunità di mantenere Sonnenberg in funzione, portando alla decisione di ridurne la capienza. In ogni caso la struttura resta sovradimensionata rispetto alle altre. La maggior parte dei bunker svizzeri, infatti, ha una capienza che varia da una singola famiglia a duecento persone.

Di sicuro Sonnenberg è l’unico a funzionare anche come museo semipermanente. Durante le visite guidate è possibile ammirare le vecchie attrezzature e avere un’idea di come si svolgeva la vita nel centro di comando durante la guerra fredda. Le luci a led, le tubature a vista e i corridoi di cemento mi hanno fatto pensare a un carcere brutalista. Nel giorno della nostra visita abbiamo attraversato una stanza dopo l’altra percorrendo rampe inclinate progettate per i carrelli dedicati alla consegna di provviste nei tunnel sottostanti. La cucina consisteva in una lunga fila di tinozze scintillanti sovrastate da cappe simili ai caschi per asciugare i capelli. Nelle tinozze si trovavano mestoli giganteschi. Su un barattolo enorme c’era un’etichetta poco promettente: “Überlebensnahrung” (cibo per la sopravvivenza). La cucina e il menù composto da cibi in scatola erano destinati solo al personale. Ancora oggi i civili sanno che in caso di emergenza dovranno portare con sé le provviste a lunga scadenza.

Un bunker in un condominio di Meyrin, Svizzera, 25 marzo 2022 (Fabrice Coffrini, Afp/Getty)

Il centro di comando originale era dotato anche di un ospedale. Le sale preoperatorie ospitano l’unica doccia di tutta la struttura, mentre i numerosi bagni a secco tuttora posizionati nel rifugio – in sostanza grossi secchi di plastica grigi – dovevano servire a scongiurare la diffusione di malattie trasmesse attraverso le feci. Nel rifugio sono presenti anche cisterne d’emergenza e linee telefoniche interne per facilitare la comunicazione tra i reparti. Non ci sono finestre. Gli orologi a lancette sui muri hanno una piccola lampadina rossa per indicare se all’esterno è notte o giorno.

Sopravvivere a una catastrofe

Vale davvero la pena di mantenere attivo un posto simile? Nella sala operatoria, il norvegese sulla settantina venuto insieme alla figlia ci ha detto di non essere convinto che sia possibile sopravvivere a una guerra nucleare. “Se gli svizzeri si rifugiassero sottoterra per settimane, quando tornerebbero in superficie non potrebbero comunque sopravvivere”, ha sottolineato prima di aggiungere sarcasticamente che “il più grande strumento di protezione di cui gli svizzeri dispongono è il denaro”. Certo, non è un caso se la Svizzera e la Norvegia hanno storicamente programmi di protezioni civile tra i più avanzati al mondo. Il pil pro capite della Svizzera è il sesto del pianeta, mentre quello della Norvegia è il nono.

In realtà l’efficacia dei bunker dipende dalla natura e dalla portata di un’eventuale crisi. Gli effetti peggiori di una dispersione di materiale radioattivo di solito svaniscono nel giro di pochi giorni o settimane, presumibilmente entro la durata prevista di permanenza nel rifugio, quando ridurre l’esposizione alle radiazioni significa neutralizzare il rischio di morte. Al contrario, una fusione accidentale all’interno di un reattore nucleare in una centrale delle dimensioni di Černo­byl può rendere l’aria circostante inabitabile per secoli.

Anche la famiglia austriaca ha manifestato alcuni dubbi sulle possibilità di sopravvivenza in uno scenario catastrofico, sottolineando che, nonostante Vienna fosse più vicina della Svizzera alla cortina di ferro, con il confine ungherese e quello con l’allora Cecoslovacchia a meno di un’ora di distanza, in Austria non è mai stata costruita alcuna infrastruttura simile al bunker di Sonnenberg e il governo austriaco non ha seguito l’esempio di quello svizzero. I componenti della famiglia erano tutti d’accordo sul fatto che ci siano “modi migliori di spendere i soldi” e che la diplomazia “è una soluzione preferibile”.

Il sistema svizzero mi ha convinta che il programma più adeguato per la difesa dei civili è quello che non ha mai bisogno di usare i bunker

La vita sottoterra suscita spesso grande scetticismo. È davvero possibile che un grande numero di estranei alle prese con enormi difficoltà psicologiche possa collaborare per giorni in uno spazio angusto? (Una raccomandazione molto diffusa negli anni settanta, quella di incanalare gli impulsi ostili e aggressivi con partite a carte o con giochi da tavolo, oggi sembra poco verosimile). Cosa farebbero le persone che nel momento della crisi dovessero trovarsi lontane dai rifugi assegnati? I pazienti ricoverati e gli anziani potrebbero essere facilmente trasferiti nei bunker costruiti appositamente per loro?

I sistemi di ventilazione possono sicuramente proteggere i civili dalle radiazioni, dal materiale radioattivo e dalle armi chimiche (pericoli invisibili che non potrebbero essere neutralizzati nascondendosi nella metropolitana di Londra, per esempio), ma nessun bunker può reggere l’impatto diretto di una bomba atomica.

Eppure l’impegno della Svizzera a garantire la protezione a tutti i civili resta apprezzabile. Le ragioni dietro questa scelta vanno oltre la disponibilità finanziaria. Nel paese i bunker sono semplicemente “parte integrante dell’identità nazionale”, spiega Guillaume Vergain, vicedirettore del servizio per la protezione civile e la difesa militare del cantone di Ginevra, il cui compito è quello di assicurarsi che i rifugi siano costruiti a norma di legge e con la capienza adeguata. “È nel nostro dna”, aggiunge Vergain.

Un programma storico

Questo dna è un’eredità diretta della seconda guerra mondiale, quando i bunker facevano parte della strategia militare svizzera. All’inizio degli anni quaranta, in un momento in cui la Svizzera neutrale era completamente circondata dalle potenze dell’asse, l’esercito aveva ammassato provviste e munizioni negli swiss réduit, una serie di fortificazioni militari situate nelle Alpi per prepararsi a un’invasione nazista. Tuttavia il numero enorme di vittime causate dai raid aerei in altre zone d’Europa dimostrava la necessità di allestire un programma simile per proteggere la popolazione civile. Durante la guerra fredda la corsa agli armamenti nucleari rese i programmi di protezione civile ancora più urgenti. Secondo la storica Silvia Berger il risultato è stata una nuova mentalità di “difesa nazionale totale”, compresa la difesa ideologica dei “valori fondativi della nazione” come il federalismo, l’indipendenza, la democrazia partecipativa e la neutralità politica, ideali che contrastavano nettamente con l’autoritarismo sovietico.

Altri fattori culturali hanno contribuito a rendere i bunker un elemento centrale della strategia nazionale. Berger sottolinea che rispetto agli Stati Uniti, dove durante la guerra fredda la scelta di rifugiarsi sottoterra poteva essere considerata un atto di debolezza, umiliante e culturalmente “antiamericana”, nella storia militare della Svizzera le montagne e il sottosuolo sono sempre stati ritenuti uno “spazio sicuro”.

Per aumentare la capienza dei bunker civili il governo svizzero ha dovuto convincere l’opinione pubblica della necessità di quello sforzo. Nel 1945 solo il 30 per cento della popolazione elvetica aveva accesso ai rifugi. I primi video e cartoni animati di propaganda trasmessi negli anni cinquanta e sessanta mostravano Murmeltier, una marmotta, disegnata e filmata in scenari idilliaci tra i fiori alpini ma pronta a rifugiarsi nella sua tana alla vista di un’aquila o di un’altra minaccia dal cielo. Un video girato negli anni sessanta e proiettato durante la visita guidata del bunker di Sonnenberg comprende panorami montani, coppie che ballano in discoteca e famiglie che condividono un pasto pacifico intorno a una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, mentre una voce narrante spiega che la guerra e le crisi possono magari sembrare “molto lontane” o “confinate alla tv”, ma che la minaccia è reale anche quando sembra che la cosa più pericolosa che possa precipitare dai cieli svizzeri sia un “vaso di fiori” dal davanzale di qualcuno.

Il lusso della sicurezza

Le prime applicazioni della politica introdotta nel 1963 per garantire la costruzione dei bunker insieme ai nuovi edifici suscitarono poche proteste, anche perché chiunque avanzava una critica era tacciato di essere un simpatizzante della Russia o un comunista. Con l’emergere dei movimenti pacifisti degli anni settanta e ottanta, però, un numero sempre maggiore di persone ha cominciato a mettere in dubbio la necessità di mantenere i rifugi antiatomici.

Una delle argomentazioni più diffuse (e durature) è quella secondo cui i bunker avrebbero potuto favorire lo scoppio di una guerra atomica: se esisteva la possibilità di sopravvivere, cosa avrebbe impedito ai governi di ricorrere all’opzione nucleare? Alla fine degli anni ottanta i disastri provocati dall’uomo, dalla fusione del reattore nucleare di Černobyl nell’aprile 1986 all’uscita di composti chimici da una fabbrica della casa farmaceutica Sandoz, alla periferia di Basilea, sei mesi dopo, hanno fatto sembrare i bunker ancora più inutili e obsoleti, spostando l’attenzione della protezione civile dalla guerra alla preparazione in caso di disastri.

Insieme alla Finlandia, la Svizzera è uno dei principali esportatori di progettazione e competenze relative ai bunker. Questa realtà espone molte aziende a critiche alimentate dal contesto geopolitico. Nel 2003, all’inizio della guerra in Iraq, l’azienda svizzera Zellweger Luwa, specializzata in sistemi di ventilazione, è finita al centro di una polemica quando si è scoperto che negli anni ottanta aveva tra i suoi clienti anche Saddam Hussein.

L’Europa dei bunker

◆ In Svizzera ci sono circa 370mila bunker, tra privati e pubblici, in grado di offrire rifugio a più di nove milioni di persone: una copertura del 104 per cento della popolazione (che è di 8,6 milioni di abitanti). Nei bunker in Svezia troverebbe rifugio il 70 per cento degli abitanti e in Finlandia il 62 per cento. In Austria ospiterebbero il 30 per cento dei residenti, in Germania il 3 per cento. In Italia non esistono bunker antiatomici pubblici attivi, nemmeno per le più alte cariche dello stato. Focus


Il dibattito è continuato tra alti e bassi in sintonia con la percezione dei rischi tra l’opinione pubblica. Nel 2011, poco prima che uno tsunami danneggiasse la centrale nucleare giapponese di Fukushima, il parlamento svizzero aveva discusso la possibilità di cancellare l’obbligo di costruzione dei bunker risalente al 1963. Dopo Fukushima, però, la misura è stata prorogata.

Gli orrori delle guerre in Ucraina e a Gaza hanno avuto un effetto simile sulla popolazione svizzera. Schelbert racconta che i visitatori del bunker di Sonnenberg, un tempo scettici rispetto alla necessità di mantenere attivi i rifugi in una terra pacifica e lontana dalle crisi come la Svizzera, oggi li considerano un “privilegio”, se non addirittura un lusso. Anche i messaggi rivolti all’opinione pubblica seguono questa nuova tendenza. Al momento le comunicazioni ufficiali si concentrano sulla promozione della “cultura svizzera della prontezza”, ricordando alla popolazione che la spesa per i bunker sarà anche impopolare in tempo di pace, ma è essenziale per fare in modo di essere pronti nel caso di una guerra.

In una piccola cella piena di letti a castello, allestita per mostrare fino a che punto gli ipotetici residenti del rifugio di Sonnenberg sarebbero stati costretti a vivere a stretto contatto, mi sono distesa su una branda. Era comoda come un’amaca e più di una cuccetta in un treno notturno. Costituita da una maglia verde agganciata a sostegni di metallo, era completa di cuscino e coperta di lana. Schelbert ci ha invitato a immaginare in quella stanza un gruppo di persone terrorizzate che urlano e piangono, con uno spazio vitale di meno di un metro quadrato. Ho chiuso gli occhi, ma non ci sono riuscita.

Per tutto il tempo che ho trascorso sotto terra è stato impossibile scrollarmi di dosso una sensazione di assurdità. La pianificazione era eccellente e l’ingegneria impressionante: la protezione civile svizzera aveva pensato a tutto. Tuttavia nascondere la popolazione di un intero paese sottoterra per qualche giorno è un’impresa simile a colonizzare la Luna: esistono troppi imprevisti capaci di far fallire anche i piani più scrupolosi, come dimostra il collaudo disastroso di Sonnenberg del 1987.

Meno impulsività

Una volta tornata in superficie e alla luce del sole, mi risultava difficile non pensare che la deterrenza, la diplomazia e la non proliferazione sono più importanti che mai. Eppure sembra che i sostenitori della diplomazia stiano combattendo una battaglia persa. Quando ho confessato di essere americana, una persona mi ha mostrato una schermata diffusa dalle emittenti locali con le lettere aggressive indirizzate dal dipartimento di Elon Musk alle università europee per comunicare i tagli dei finanziamenti americani che hanno avuto effetti profondi sulla ricerca in Svizzera e altrove. Quando due visitatori hanno evitato palesemente di rivolgermi la parola, per un breve momento mi sono chiesta se fosse stato un errore presentarmi come una “amerikanische journalistin”. Poi mi sono detta che la mia era solo una reazione paranoica, l’effetto strisciante del nazionalismo che identifica gli individui con i loro passaporti. Una trappola in cui non voglio cadere.

Il sistema svizzero per la protezione civile mi ha convinta che l’impulsività non sia il modo migliore per affrontare una crisi e che il programma più adeguato per la difesa dei civili è quello che non ha mai bisogno di usare i bunker. L’alternativa, d’altronde, è un mondo governato dalla belligeranza, dall’imprevedibilità e da rischi enormi, un mondo di “prima l’America” in cui la diplomazia è ridotta a una corsa vertiginosa a premere il bottone rosso prima che lo faccia il nemico. ◆ as

Jessi Jezewska Stevens è una scrittrice e giornalista statunitense che vive a Ginevra, in Svizzera. Scrive di politica e cultura europee per Foreign Policy, The Dial, The Nation.

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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati