Anche tra gli avversari più feroci può esserci una coreografia della guerra. Non si tratta ovviamente di una questione puramente estetica, ma di regole d’ingaggio, del segnale politico che si invia all’altro.

È quello che è successo quando l’Iran ha fatto sapere in anticipo al Qatar, e quindi agli Stati Uniti, che la loro gigantesca base di Al Udeid, vicino Doha, sarebbe stata presa di mira da lanci di missili. Lo scopo non era distruggere la base o uccidere chi c’era: qualche missile su una delle strutture protette meglio non basterebbe. L’obiettivo era proprio inviare un messaggio politico, quello che Teheran non cercava l’escalation con Washington.

Il regime iraniano non poteva lasciare senza risposta il bombardamento senza precedenti dei suoi siti nucleari compiuto dagli aerei statunitensi, una vera e propria umiliazione, ma sa anche che non è in grado di affrontare una guerra aperta con gli Stati Uniti. Accetta di fatto la sua sconfitta, ma assicura la sua sopravvivenza.

Trump ha incassato volentieri il messaggio e, in un ribaltamento di quelli che solo lui sa fare, ne ha subito tratto le conseguenze, decretando la fine di questa guerra di dodici giorni. Cogliendo tutti di sorpresa: tanto i suoi collaboratori quanto Israele, che voleva continuare.

Gli conviene politicamente: Trump si era preoccupato di presentare il bombardamento del 22 giugno come un atto unico, non l’inizio di una guerra. Una parte dei suoi elettori è già destabilizzata da questa operazione militare, e il presidente rischiava di perderla entrando in un’escalation contraria ai suoi impegni pacificatori. Ci sarebbe stato un altro scenario se ci fossero state vittime statunitensi nei lanci di missili iraniani.

C’è un precedente: nel 2019, durante il primo mandato di Trump, l’Iran aveva abbattuto un drone statunitense da 130 milioni di dollari. Una rappresaglia contro le basi iraniane era stata prevista, ma Trump l’aveva fermata. Spiegando che sul drone non c’erano piloti, dunque non c’erano state vittime, mentre le ritorsioni avrebbero causato decine di morti.

La stessa logica gli permette oggi di uscire rafforzato da questa vicenda. Trump potrà vantarsi all’infinito di aver usato la forza più grande possibile contro l’Iran, contrariamente ai suoi predecessori, e di essersi mostrato giusto e magnanimo al termine dello scontro. Il vantaggio politico è evidente.

Nel frattempo toglie il terreno sotto i piedi a Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano non era della stessa idea. Ieri ha intensificato i bombardamenti e ha perfino ampliato i suoi obiettivi, puntando a quelli che persegue dall’inizio: la distruzione del nucleare o il cambiamento di regime?

Non c’è dubbio che Israele preferirebbe andare fino in fondo, anche se dovrà accontentarsi di aver fatto arretrare, ma probabilmente non totalmente distrutto, il programma nucleare iraniano.

Significa chiaramente che ormai è Trump a decidere della pace e della guerra nel mondo. Non è certo una buona notizia per l’ordine internazionale, anche se oggi non ci si può che rallegrare se questo conflitto si ferma.

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