Il 22 giugno gli Stati Uniti hanno usato almeno 125 aerei, tra cui i bombardieri B-2, per attaccare alcune strutture del programma nucleare iraniano. Si tratta evidentemente di una svolta in questa guerra, che non è ancora terminata e potrà riservare grandi sorprese. In ogni caso possiamo già trarre alcuni insegnamenti a caldo dall’escalation in Medio Oriente.

Il primo è che il protagonista della partita regionale è senza dubbio Benjamin Netanyahu. Disprezzato nel suo paese dopo il disastro sulla sicurezza del 7 ottobre 2023, il primo ministro israeliano è riuscito nell’arco di venti mesi a eliminare i vertici di Hamas e Hezbollah e a distruggere l’esercito siriano dopo la caduta di Bashar al Assad. Negli ultimi dieci giorni Netanyahu ha scatenato la guerra che sognava da vent’anni contro la Repubblica islamica dell’Iran.

Fino all’anno scorso, quando era presidente Joe Biden, gli Stati Uniti avevano sempre imposto il veto agli attacchi israeliani contro il programma nucleare iraniano. Da allora Netanyahu non solo è stato capace di convincere il successore di Biden, Donald Trump, a lasciarlo fare, ma lo ha addirittura coinvolto nel suo attacco. Contro ogni legge internazionale, gli Stati Uniti hanno colpito obiettivi che solo la potenza di fuoco statunitense erano in grado di raggiungere. È uno sviluppo senza precedenti, oltre che un trionfo strategico che regala a Netanyahu un potere inedito.

Oggi siamo costretti a prendere atto della nuova situazione sul campo. Fino a pochi mesi fa gli statunitensi negoziavano ancora una via d’uscita dalla crisi, basata sul riavvicinamento tra Israele e l’Arabia Saudita, il pezzo mancante dei cosiddetti accordi di Abramo, che hanno sancito il riconoscimento dello stato ebraico da parte di molti paesi arabi.

La situazione ora è cambiata. Israele è diventata la potenza dominante del Medio Oriente grazie alla dimostrazione della sua potenza militare e alla sua influenza sull’attuale amministrazione statunitense. E pensare che appena due mesi fa Trump era impegnato in un viaggio trionfale nel Golfo, non si era nemmeno fermato in Israele e attaccava gli “interventisti” che a suo dire agivano “in società complesse che nemmeno capiscono”. In quel momento è sembrato che voltasse le spalle alle avventure militari, come aveva promesso durante la campagna elettorale.

L’aspetto più sorprendente nella sequenza di fatti degli ultimi dieci giorni è la capacità di Netanyahu di convincere Trump a seguirlo. Il presidente degli Stati Uniti può vantarsi dell’efficacia della sua aviazione, ma è Netanyahu che raccoglierà i frutti dell’operazione in Medio Oriente.

Sarà un successo duraturo? Questa è la domanda principale. Netanyahu, sostenitore come Trump della “pace attraverso la forza”, non ha mostrato fino a questo momento un’abilità politica all’altezza della potenza del suo esercito e dei suoi servizi di sicurezza.

Il primo ministro israeliano è padrone del gioco, ma quali sono le regole? La forza è un mezzo, non una soluzione. Più ancora che in Iran, paese chiaramente indebolito, è a Gaza il vero banco di prova: mentre l’aviazione israeliana attacca Teheran, la tragedia palestinese prosegue con stragi quotidiane nei luoghi dedicati alla distribuzione degli aiuti, senza la minima prospettiva politica in vista.

Israele può imporsi ancora con la forza, ma i suoi rapporti nella regione, soprattutto con l’Arabia Saudita, passeranno necessariamente da un accordo politico e giuridico, in particolare rispetto alla Palestina. Netanyahu conosce sicuramente questa citazione: “La guerra è più facile cominciarla che finirla”. Purtroppo, allo stato attuale, possiamo aspettarci che la guerra continui ancora a lungo.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it