◆ Le dodici notti fra il 31 ottobre e san Martino non sono solo quelle dell’immaginario d’importazione delle zucche vuote. I giorni dei morti affondano nelle radici del tempo. La stagione che introduce l’inverno offre il simbolismo più adatto per celebrare il sonno della morte. Questo lo sapevano bene tutte le tradizioni folcloriche. Nella società contemporanea, invece, la morte è l’ultimo vero tabù. “Ricordati che devi morire!”, “Sì, sì, no, m0’ me lo segno”, diceva bene l’indimenticabile Massimo Troisi. La morte è l’unica cosa che ci rende vivi, ma è anche l’unica che non vogliamo guardare. È un pensiero che danneggia la produzione. Disturba il sistema basato sulla vita che non finisce mai, sull’ottimismo, sugli investimenti. Ed è l’unica cosa di cui non si può essere proprietari. Ma anche su questo si sta lavorando. Ricerca, crioterapia, ibernazione. Gli incommensurabilmente ricchi, con il mondo ai loro piedi, stanno tentando in ogni modo di comprarsela, senza ancora riuscirci. La rimozione della morte credo sia un fatto politico. Se fossimo davvero consapevoli che ogni istante è eterno perché è l’ultimo, saremmo davvero disposti a vivere la vita che stiamo vivendo, alle condizioni in cui stiamo vivendo? O piuttosto, come in quella bellissima poesia di Dylan Thomas, dovremmo infuriare contro la rassegnazione e la mansuetudine?
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati
 
			 
                         
                     
                     
                    





 
	                 
	                 
	                 
            