L’impazienza verso i formati classici con cui consumiamo la cultura – la presentazione dei libri impostata sul dialogo a due, i concerti senza una particolare cornice tematica – spinge a cercare proposte diverse e a volte la ricerca ha fortuna. Se nell’editoria lo spazio per la saggistica d’autore che mescola diario e intervista si è ridotto, il teatro serve ancora a ospitare piccole bizzarrie di scrittura. L’ultimo spettacolo di Filippo Timi, Non sarò mai Elvis Presley, si basa su brevi monologhi e tredici brani sostenuti musicalmente dal compositore romano Lorenzo Minozzi e dallo stesso Timi, che suona l’handpan. Per struttura e contenuti, è un canzoniere libero in cui l’ironia non degrada nel sarcasmo, né l’autocritica si fa miseria, anzi: tutto, anche l’abisso nella vita di un attore, è permeato da un certo affetto. Visto negli stessi giorni in cui ho assistito alla proiezione di Nouvelle vague di Richard Linklater e a una tappa del tour di Kae Tempest, che con Self-titled arriva al suo lavoro più maturo, ho dovuto recuperare il tema della sincerità, un rischio a cui gli artisti citati si sono esposti con queste ultime rappresentazioni di sé e del loro rapporto con il mondo. Se il rischio della sincerità un tempo mi sembrava preferibile rispetto alla sorveglianza contro tutto quello che è cringe, oggi mi pare inevitabile e rispettoso, e Filippo Timi lo sa. Intanto questa rubrica di canzoni si ferma per un po’ per l’arrivo di una bambina che aspetto come si aspettava l’uscita di un disco di una band che amavi alla follia ma che di album non ne faceva poi tanti. Ci sentiamo presto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati