◆ Una volta una bambina di otto anni, l’età in cui si possono infastidire gli adulti sui treni, con stupefacente sintesi m’informò che le sirene per cantare usano una lingua speciale: il sirenese. Non specificò se fosse un linguaggio sintattico, oppure emozionale. Di sicuro è una lingua che i sirenidi possono intendere, ma che non tutti possono udire. Ulisse se lo poté permettere perché era re e proprietario terriero, quindi aveva chi remava per lui. I compagni, con i tappi di cera alle orecchie, non udirono nulla. Seppero del pericolo del canto, ma non della sua bellezza. Anche Ulisse, con tutte le sue responsabilità, non poté permettersi di cedere all’abbandono di sé. Tra la sordità dei docili servi e l’immobilismo del padrone il canto, con la sua terribile bellezza, non ha prodotto nulla in grado d’incidere sulla realtà. L’idea della seduzione che da sempre l’ha accompagnato oggi si è trasformata in persuasione, servitù volontaria senza coercizione, bolla, narrazione profilata servita individualmente a mezzo di protesi tecnologica, che finisce per agire in modo ben più significativo sulla realtà. In un reale in cui le sirene sono quelle degli allarmi, dei bombardamenti, dei massacri degli inermi, i tappi di cera continuano a fare il loro lavoro. Si rema docilmente sordi, tra sirene e sirene. Eppure il sirenese esiste. Ogni infanzia lo conosce bene. È la lingua dell’innocenza.
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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati