“A Jabalia non c’è più una casa, un albero o un singolo essere umano”, ha scritto lo scorso dicembre su X un medico del nord della Striscia di Gaza che si fa chiamare dottor Ezziddeen. “È diventata un’immensa landa desolata, gli abitanti sono stati sfollati con la forza, le case cancellate, gli animali uccisi e perfino gli alberi sono stati abbattuti. Questa immagine resterà una testimonianza di uno dei periodi più oscuri e atroci della storia”.

La distruzione del campo profughi di Jabalia è diventata un simbolo, ma oggi non è più un caso isolato. Nei venti mesi dopo il 7 ottobre 2023 le forze armate israeliane hanno distrutto anche Beit Lahia, Beit Hanun, la parte orientale della città di Gaza e i quartieri periferici di Khan Younis, e ora stanno completando la cancellazione di Rafah. Nell’ottobre del 2023 un satellite era passato sulla città fotografandola. L’immagine mostrava un grande centro urbano, un fitto mosaico di edifici, pannelli solari, cupole di moschee, strade, piazze, terreni agricoli e frutteti. All’inizio di giugno del 2025 un satellite è passato di nuovo sopra la città o, meglio, su quella che un tempo era una città. Non è rimasto quasi niente. L’immagine mostra un’area grigia e piatta cosparsa di macerie. La stragrande maggioranza degli edifici è stata rasa al suolo. Le strade sono sventrate. Le numerose serre e i tanti frutteti sono scomparsi come se non fossero mai esistiti. All’inizio della guerra il ministro israeliano del patrimonio, Amichai Eliyahu, non aveva escluso la possibilità di usare una bomba atomica. In effetti, la percentuale di edifici distrutti a Rafah e Jabalia è più alta di quella di Hiroshima e Nagasaki. Non solo, la distruzione a Rafah svetta anche al confronto con altri casi estremi della storia moderna. È più vasta e metodica di quella inflitta ad Aleppo in Siria, a Mosul in Iraq, a Sarajevo in Bosnia Erzegovina e a Kabul in Afghanistan.

Alla vigilia della guerra l’area metropolitana di Rafah aveva una popolazione di 275mila persone. Nel campo di Jabalia ce n’erano 56mila. Beit Lahia aveva 108mila abitanti e Beit Hanun 62mila. Ad Abasan al Kabira, un quartiere periferico di Khan Yunis che non esiste più, vivevano trentamila persone. Un quartiere adiacente, Bani Suheila, aveva una popolazione di 46mila abitanti. Ora sono stati tutti cancellati.

E queste sono solo le città spazzate via completamente o in larga parte. L’esercito ha anche distrutto e raso al suolo interi quartieri dei due centri urbani maggiori: Gaza e Khan Yunis. Un caso esemplare è quello di Shujaiya, il vasto quartiere orientale della città di Gaza, cancellato dalla faccia della terra.

Nel complesso due terzi delle costruzioni della Striscia sono stati distrutti o danneggiati: 174mila dei 250mila edifici di un tempo. Quasi 90mila strutture – più di un terzo del totale – sono state distrutte quasi completamente o in maniera significativa. Se a queste si aggiungono le 52mila che hanno subìto danni moderati, si arriva al 50 per cento. Secondo le Nazioni Unite, altre 33mila strutture mostrano segni di danneggiamento, anche se è difficile stimarne la portata.

La fame incombe

Questi dati, raccolti dal Centro satellitare delle Nazioni Unite, sono stati aggiornati ad aprile. Il numero è identico alla cifra calcolata dal dottor Corey Scher e dal professor Jamon Van Den Hoek, ricercatori della Oregon state university, negli Stati Uniti, che monitorano regolarmente l’entità della distruzione a Gaza.

Oltre agli edifici residenziali, l’esercito israeliano ha distrutto ospedali, infrastrutture, fabbriche, moschee, chiese, mercati e centri commerciali. Ha anche devastato 2.300 strutture educative di ogni tipo, e oggi 501 delle 564 scuole nella Striscia devono essere ricostruite o necessitano di importanti ristrutturazioni.

L’81 per cento delle strade è stato devastato o danneggiato. Una gran parte dell’infrastruttura elettrica è stata demolita, così come le condotte idriche e fognarie, le strutture agricole, le stalle, i pollai e le aree di pesca. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) il numero di galline si è ridotto del 99 per cento dal 2023, il numero di capi bovini del 94 per cento e la quantità di pescato è crollata del 93 per cento.

Almeno cinquanta milioni di tonnellate di macerie e detriti sono sparsi in tutta la Striscia, e l’Onu calcola che ci vorranno vent’anni per rimuoverli tutti. La distruzione è stata così vasta e metodica che è difficile immaginare un ritorno alla vita normale nel prossimo futuro.

Beit Lahia, Striscia di Gaza, ottobre 2023 (Planet Labs PBC, 2)

Nel frattempo, più di un milione di persone è stipato nelle immense tendopoli nell’area di Al Mawasi, sulla costa, e nella porzione orientale della città di Gaza. Di recente un’ulteriore ondata di sfollati si è riversata in quest’area già densamente popolata, al punto che ora le tende vengono piantate perfino sui pontili di Gaza, nelle discariche e sopra le macerie. Gli sfollati vivono senza sistemi fognari, senza acqua corrente e non hanno modo di cucinare i pochi aiuti che ricevono. Con l’inizio dell’estate sono anche esposti all’assalto delle zanzare. E la fame incombe ovunque.

Le fantasie sull’eliminazione della Striscia sono onnipresenti in Israele. Nel corso di questi mesi di guerra decine di migliaia di persone sui social media hanno chiesto di radere al suolo, annientare e cancellare la Striscia di Gaza. Esponenti del gabinetto di sicurezza, parlamentari e importanti giornalisti ne hanno più volte invocato l’annientamento.

Nei circoli di estrema destra si sta diffondendo una nuova espressione: “zarbivizzare” Gaza, dal nome del rabbino Avraham Zarbiv, giudice rabbinico a Tel Aviv e nell’insediamento di Ariel e riservista dell’esercito. Nel corso di varie interviste con la tv filogovernativa Channel 14, Zarbiv si è vantato più volte della distruzione che lui e i suoi compagni d’armi stanno portando avanti a Gaza con i bull­dozer. “Abbiamo cominciato ad abbattere edifici di cinque, sei, sette piani. Il sistema si sta perfezionando, e funziona”.

Abitudine e banalità

La cancellazione della Striscia fatta dall’esercito israeliano può essere divisa in cinque ondate. La prima è cominciata subito dopo il 7 ottobre 2023 ed è stata opera delle forze aeree. Nella prima settimana di guerra l’aviazione israeliana ha sganciato seimila bombe sulla Striscia di Gaza. Questa distruzione è stata applaudita da alcune figure chiave dell’opinione pubblica del paese. “La notte non riesco ad andare a dormire se prima non ho visto le case che crollano a Gaza”, ha dichiarato nel dicembre 2023 Shimon Riklin di Channel 14. “Che ci posso fare… Ancora, ancora, ancora, ancora case, ancora grattacieli, così non avranno più un posto in cui tornare”.

La seconda ondata di distruzione è stata scatenata all’inizio del 2024, quando l’esercito israeliano ha condotto un’operazione per creare una zona cuscinetto larga un chilometro lungo il confine tra la Striscia e Israele. In questa occasione sono state distrutte migliaia di strutture, contemporaneamente alla creazione del corridoio Netzarim, a sud della città di Gaza, che ha continuato ad allargarsi (solo le aree rase al suolo ai lati del corridoio costituiscono più del 10 per cento della superficie della Striscia). In questa fase le ruspe e gli esplosivi hanno sostituito l’aviazione come strumenti di distruzione. “La cosa davvero sorprendente è la rapidità con cui tutto è diventato naturale e logico”, ha scritto il riservista Yuval Katef parlando del suo periodo in servizio nel corridoio Netzarim. “Dopo qualche ora ti costringi a pensare frasi tipo ‘Questa è vera follia!’, ma la verità è che ti abitui molto in fretta. Diventa banale”. La terza fase dello spianamento della Striscia è cominciata a metà del 2024 con l’attacco a Rafah, nell’estremo sud. In quel periodo le forze armate israeliane hanno cominciato ad allargare e fortificare il corridoio Filadelfi, che costeggia il confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. In questa fase l’esercito ha sviluppato un nuovo ed efficiente metodo di distruzione: veicoli corazzati senza persone a bordo mandati in missioni kamikaze. Vecchi veicoli per il trasporto delle truppe – noti come Zelda – venivano riempiti di grandi quantità di esplosivo e inviati, guidandoli a distanza, negli edifici destinati alla demolizione. Centinaia di costruzioni sono state abbattute con questo metodo: il rumore delle esplosioni si avvertiva fino a Tel Aviv.

Beit Lahia, Striscia di Gaza, giugno 2025

La quarta fase, verso la fine dello scorso anno, è stata la devastazione inflitta dalle forze militari israeliane alle città del nord della Striscia: Beit Lahia, Beit Hanun e il campo profughi di Jabalia. Questo capitolo si è concluso alla fine di dicembre, quando il dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, si è consegnato agli israeliani. Le immagini di Abu Safiya che camminava in direzione dei soldati in uno scenario apocalittico hanno suscitato una forte impressione internazionale e hanno reso evidente che l’esercito si stava lasciando alle spalle cumuli di macerie.

Nel gennaio 2025, con la dichiarazione del cessate il fuoco, la macchina della devastazione si è arrestata. In quel periodo a Gaza si è affermata una tendenza su TikTok: tra le centinaia di migliaia di persone che tornavano dove erano vissute, molte si filmavano mentre ripulivano le macerie creando un piccolo spazio abitabile in quelle che un tempo erano state le loro case. Era una dichiarazione di determinazione da un lato e l’aspirazione a un briciolo di integrità mentale dall’altro.

Ma quella pausa di sollievo è durata poco.

Un piano chiaro

Il 18 marzo 2025 Israele ha violato il cessate il fuoco con un attacco notturno che ha ucciso circa trecento persone tra donne e bambini, e due mesi dopo le forze armate israeliane hanno lanciato l’operazione carri di Gedeone, la quinta fase. Sotto il comando del nuovo capo di stato maggiore, Eyal Zamir, la distruzione diffusa è diventata una politica esplicita ed è stata portata avanti in modo ancora più minuzioso. In questa fase, ancora in corso, Israele sta usando compagnie private, pagate sulla base del numero di demolizioni. “Opereremo in altre zone e distruggeremo tutte le infrastrutture, sopra e sotto la superficie del suolo”, ha dichiarato Zamir prima delle operazioni.

Il giornalista Amit Segal ha affermato: “Per la prima volta parlano di distruggere tutte le infrastrutture in superficie”. Sei mesi prima, dopo una visita a Jabalia, aveva scritto: “Le fotografie non possono descrivere le proporzioni della distruzione, da qualunque parte si guardi. Nel nord della Striscia rimangono solo lastre di cemento, sabbia, grandi cumuli di spazzatura e branchi di cani affamati”.

Con il passare dei giorni, a mano a mano che l’entità della distruzione si fa più evidente, diventa più chiaro che il primo ministro Benjamin Netanyahu in realtà ha un piano per il dopo: l’espulsione in massa della popolazione della Striscia di Gaza. Ne parla apertamente: spingeremo gli abitanti verso sud, troveremo paesi disposti a prenderli, e alla fine la maggior parte di loro accetterà di andarsene “di sua spontanea volontà”. “Stiamo distruggendo sempre più case”, ha detto il mese scorso il primo ministro alla commissione affari esteri e difesa del parlamento, riferisce il quotidiano Maariv. “Non avranno alcun posto in cui tornare”.

Il segnale di partenza è stato dato il 4 febbraio, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato in una conferenza stampa: “Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza… Sarà in nostro possesso e noi saremo responsabili della rimozione di tutte le bombe inesplose e di altre armi”.

La situazione di Gaza è unica, perché Israele la sta distruggendo senza che gli abitanti abbiano un posto in cui scappare

Da quel momento questa idea è diventata un progetto esecutivo. Così ha spiegato il concetto Bezalel Smotrich, ministro delle finanze che fa parte del gabinetto di sicurezza: “Basta incursioni. Conquisteremo per restare, fino all’annientamento di Hamas. Nel frattempo distruggeremo quel che ancora rimane della Striscia. L’esercito israeliano sta spostando la popolazione dalle aree di combattimento e non sta tralasciando nulla. La popolazione andrà nel sud della Striscia e da lì, con l’aiuto di Dio, verso paesi terzi. È un cambiamento del corso della storia. Questa è la cosa principale”.

È in questo contesto che Rafah è stata cancellata, una devastazione che continua fino al corridoio Morag, un nuovo corridoio a nord della città. Ora sembra che gli israeliani stiano continuando a espandere l’area dell’annientamento in direzione nord, verso Khan Yunis. Dopo averne devastato i quartieri periferici, l’esercito ha cominciato ad accelerare le demolizioni nella città. Per ora nell’area è attiva la settima brigata e il suo comandante ha dichiarato: “Quando avremo finito non potranno tornare qui per anni”.

Il professor Eliav Lieblich, esperto di diritto internazionale dell’università di Tel Aviv, spiega che “il diritto internazionale permette la distruzione in due casi: se la struttura contribuisce effettivamente allo sforzo bellico del nemico, o in caso di necessità militare, per esempio se un muro deve essere abbattuto per poter passare”. Ma osserva che “anche in queste situazioni ci sono delle protezioni speciali per le strutture sanitarie, i terreni agricoli, gli impianti idrici e altro. Fino a oggi non ho sentito neppure un tentativo di spiegare come questa distruzione su vasta scala possa essere giustificata”.

Secondo Ioannis Kalpouzos, professore in visita presso la facoltà di legge di Harvard, specializzato in diritto internazionale, “l’entità e la natura sistematica della distruzione di case e altre strutture con funzioni sociali vitali fa ipotizzare che l’obiettivo di questa campagna militare è lo sfollamento forzato e permanente dei palestinesi da Gaza, che è una violazione del diritto internazionale umanitario, un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. Quindi non si tratta più di stabilire la legalità di specifiche azioni (per esempio, se la distruzione di una struttura risponda a un’imperativa necessità militare) ma è la campagna militare nel suo complesso a essere di conseguenza illegittima”.

Intrappolati

Uno dei motivi per cui esperti giuristi e storici ritengono che le azioni di Israele a Gaza si possano considerare un genocidio è l’enorme portata della distruzione. Tra questi c’è anche lo storico israelo-statunitense Omer Bartov, professore emerito di studi sull’Olocausto e sul genocidio alla Brown university, negli Stati Uniti. Bartov sostiene che “questa non è una guerra, è una falsa rappresentazione”. Tutti i segnali, afferma, dimostrano che Israele sta agendo “per distruggere completamente l’esistenza dei palestinesi a Gaza e per rendere la Striscia inabitabile”. Secondo Bartov “se c’è una distruzione deliberata e sistematica degli ospedali, delle istituzioni educative e culturali, dei centri religiosi, delle infrastrutture, è evidente che queste strutture non sono prese di mira perché ci sono militanti di Hamas nascosti all’interno, ma perché si vuole impedire l’esistenza di un insieme di persone in quanto tale”.

Ultime notizie

◆ Il 24 giugno 2025 l’agenzia di protezione civile palestinese ha affermato che almeno 46 persone sono state uccise dall’esercito israeliano vicino a due centri per la distribuzione di aiuti umanitari nel centro e nel sud della Striscia di Gaza. I centri sono gestiti dalla Gaza humanitarian foundation (Ghf), una fondazione sostenuta da Israele e dagli Stati Uniti, contestata dalle Nazioni Unite e da alcune ong. Secondo il ministero della salute della Striscia gestito da Hamas, dalla fine di maggio 467 persone sono state uccise dall’esercito israeliano mentre cercavano di raggiungere i centri della Ghf. Afp


Aggiunge Bartov: “È difficile trovare termini di paragone per la devastazione inflitta dall’esercito israeliano. Bisogna tornare indietro alle città distrutte nella seconda guerra mondiale. Sono proporzioni inconcepibili. Che i generali israeliani ne siano consapevoli o meno, l’obiettivo è ‘far sparire’ la società palestinese e la sua cultura e costruire a Gaza qualcosa di diverso, senza nessuna memoria di quello che c’era prima”. Lo storico Dotan Halevy, che ha scritto ampiamente sulla storia di Gaza, considera la distruzione attuale una prosecuzione della Nakba del 1948. “La Striscia di Gaza”, osserva, “è l’unica regione costiera ad aver conservato una storia ininterrotta. La sua cancellazione ora sta distruggendo le tracce storiche di centinaia di anni”.

La situazione di Gaza è unica, sottolinea Halevy, perché Israele la sta distruggendo senza che gli abitanti abbiano un posto in cui scappare. “Per trent’anni Gaza è stata un’enclave chiusa, in cui la popolazione era imprigionata. A differenza delle città tedesche nella seconda guerra mondiale o di Aleppo in Siria non è possibile semplicemente raccogliere le proprie cose e andar via in cerca di un rifugio. La conseguenza è un’esperienza di annientamento da cui non c’è via di scampo. Gli abitanti di Gaza sono intrappolati nel rumore dei bombardamenti e respirano la polvere delle rovine”.

In molti ambienti oggi gli osservatori considerano quello che sta succedendo nella Striscia come un segnale del tracollo dell’ordine internazionale emerso dopo la seconda guerra mondiale. Limor Yehuda crede sia prematuro perdere completamente la fiducia nel sistema internazionale. Secondo Yehuda, direttrice del Shemesh center for the study of a partnership­-based peace, in fase di avvio all’istituto Van Leer di Gerusalemme: “Siamo indubbiamente in una situazione in cui questo equilibrio si sta sgretolando. Tutte le norme del diritto internazionale sono oltraggiate e il mondo non sta facendo niente. D’altra parte, dobbiamo ricordare che anche in Bosnia ci vollero tre anni e mezzo”.

“Alla fine, questa guerra maledetta si concluderà, le illusioni si frantumeranno e torneremo al punto di partenza: tra il Giordano e il mare ci sono due popoli, nessuno se ne andrà da nessuna parte e la scelta è se vivere insieme o morire insieme. Nel frattempo, tutti devono porsi la questione di come smettere di collaborare con questo meccanismo di distruzione”.

“Abbiamo una fede incrollabile nel fatto che, un giorno, la giustizia sorgerà”, ha scritto il dottor Ezziddeen da Gaza. “Il mondo resterà in solenne silenzio, in lutto per questo genocidio, e passerà un tempo ancora più lungo ad affliggersi per il fallimento della giustizia e il collasso dell’umanità nella nostra epoca. In quel giorno il mondo piangerà, non solo per noi, ma per i resti della sua anima in frantumi”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 53. Compra questo numero | Abbonati