Avendo ospitato a Venezia la Biennale di architettura fin dalla sua prima edizione nel 1980, l’Italia mantiene stretti legami con questo settore. Lo dimostrano i politici di ogni tendenza, che mettono riga e squadra al centro delle loro preoccupazioni. Alcuni sono stati architetti di professione, come Bruno Zevi (presidente del Partito radicale), Stefano Boeri, che è stato assessore del comune di Milano, o Renzo Piano, senatore a vita dal 2013.

Ma è nell’estrema destra che il legame tra la politica e l’architettura è più evidente. Quando Benito Mussolini nel 1922 arrivò al potere capì che la pietra sarebbe stata la migliore garanzia di longevità del fascismo. Per costruire stazioni, stadi e altri edifici pubblici si affidò all’architettura cosiddetta “razionalista”, che per modernità e monumentalità si adattava bene alla sua ideologia, ravvivando allo stesso tempo la nostalgia per l’Impero romano. Con non minore enfasi Silvio Berlusconi sognava di essere l’erede dei principi che fecero costruire i palazzi del rinascimento. Con la realizzazione del quartiere di Milano 2 negli anni settanta, l’imprenditore lombardo gettò le basi del suo impero immobiliare, mediatico e politico.

Contro le archistar

Giorgia Meloni, che in un governo Berlusconi è stata la ministra della gioventù (tra il 2008 e il 2011), sa bene quanto l’urbanistica si presti alla manipolazione politica. Del resto Fabio Rampelli, 64 anni, vicepresidente della camera dei deputati, di Fratelli d’Italia, è iscritto all’ordine degli architetti. E non ha risparmiato i suoi colleghi. In un ritratto che Il Foglio gli ha dedicato nel 2023 se la prende con le cosiddette archistar come Massimiliano Fuksas, Richard Meier o Stefano Boeri, il cui “gigantismo” e le cui “speculazioni” rendono “le città italiane identiche a quelle straniere, da Shanghai a Las Vegas, da Città del Messico al Cairo”. Rampelli difende un’architettura “identitaria e tradizionale”, e si ispira alle lotte dell’attivista ambientalista Antonio Cederna, a cui si deve la conservazione del parco dell’Appia Antica a Roma, e al razionalismo di Luigi Moretti, il suo architetto preferito, la cui carriera fu ostacolata dal coinvolgimento con il fascismo. “Durante il totalitarismo”, afferma Rampelli sul Foglio, “fiorivano nuovi stili ed emergevano giovani geni creativi”. Il contrario, si rammarica, “dell’attuale era di libertà proclamata” dove trionfa lo “stile monotono e universale delle archistar, le cui tecnologie non rispettano né i luoghi né le identità”.

Massimiliano Smeriglio, assessore alla cultura del comune di Roma, di sinistra, sottolinea le contraddizioni di Rampelli: “I razionalisti erano le archistar del loro tempo. Del resto hanno scritto una bella pagina di modernismo architettonico, che anch’io difendo”, spiega Smeriglio, figlio di un partigiano. “I fascisti intendevano socializzare le masse attraverso il cinema, il teatro e l’architettura. Non è il caso di Meloni e dei suoi amici, che offrono poco più di un capitalismo autoritario”.

Per ora, il bilancio culturale del governo Meloni si limita a un ritornello, ripetuto a volontà: italianizzare le posizioni dirigenziali della Biennale di Venezia. Due anni dopo la ghaneana-scozzese Lesley Lokko, criticata dall’estrema destra per “le sue affermazioni woke”, il commissario dell’edizione 2025 è un italiano, Carlo Ratti. Il fatto che Ratti, ingegnere e architetto, lavorasse per il Massachusetts institute of technology di Boston e partecipasse al progetto Neom, per costruire la più grande smart city del mondo in Arabia Saudita, non è stato un ostacolo insormontabile per il governo, la cui visione architettonica, per quanto “tradizionale”, colpisce innanzitutto per la sua adattabilità. Del resto, ben lontano dagli esordi fascisti, Luigi Moretti si era lasciato andare alla globalizzazione più sfrenata, arrivando perfino a progettare, al tramonto della sua vita, il celebre complesso edilizio del Watergate a Washington, negli Stati Uniti. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 39. Compra questo numero | Abbonati