Faccio sempre più fatica a ignorare la posizione in cui si trova chi scrive un libro: uno stare che è geografico, sociale e linguistico. _L’ultima volta che sono stata lei _è stato composto a New York e a Parigi, nel tentativo di mettere una distanza chilometrica tra la scrittura e il suo oggetto. Ho spesso considerato lo scrivere da altrove un’esperienza assimilabile a quella degli esuli: senza scelta. Invece Silvia Pelizzari nel suo esordio decide letteralmente (e letterariamente) che “il passato è un paese straniero”, come scriveva qualcuno. Il fatto le è capitato davanti agli occhi una mattina, una frase a pennarello nel bagno del liceo: “Non ho cancellato quella scritta, eppure ho in qualche modo cancellato dalla mia memoria chi ero io allora. Una diagnosi da cui non mi sono mai liberata, nonostante la malattia sia scomparsa”. _L’ultima volta che sono stata lei _ha un duplice intento: quello di spolverare la sintomatologia di chi si è stati, e la patogenesi di chi si è diventati. Non amo i memoir che s’imbastiscono di letteratura, perché penso che la seconda sia continuamente in dialogo con la vita, e che sottolinearlo risulti didascalico. Perciò sono entrata quasi controvoglia in questo libro, ma mi ha sorpreso una scrittura bella, luminosa, dolorosa. Molto riuscita nelle parti in cui cerca di disincagliarsi dalla pastosità del passato. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati