Il protagonista Cyrus, nato a Teheran e cresciuto in Indiana, è figlio di due martiri: la madre è morta su un aereo abbattuto per errore dall’esercito statunitense; il padre si è consumato in un allevamento di pollame nel Midwest. Cyrus, la cui vita è galvanizzata da dipendenze e depressione, è così triste da ambire alla morte, ma cerca un senso più grande in questo desiderio. Aspirante scrittore, veicola quell’interesse in un progetto letterario incentrato sui martiri (che resta un po’ vago), e che lo porta a conoscere l’artista iraniana Orkideh, lo zio Arash, arcangelo della morte durante il conflitto con l’Iraq. Akbar orchestra un coro di voci, del protagonista, dell’amico-amore di Cyrus, Zee, dei suoi genitori, dei suoi sogni, dello zio. Tra piani temporali e geografici diversi, compone un canto liturgico della morte, in un romanzo che passa dall’ironia all’emotività confusa di un adolescente. L’esordio di Akbar, tradotto da Chiara Spaziani, ci riporta ai romanzi lunghi, con un poeta iraniano-statunitense che irrompe nella narrativa in modo simile a un altro poeta, il vietnamita-statunitense Ocean Vuong con Brevemente risplendiamo sulla terra: una scrittura che rompe gli schemi, sperimenta con la parola, si colora di lirismo, sfida le logiche narrative. Una prova brillante che esplora la complessità umana tenendosi sul confine tra reale e surreale. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati