Un gatto investito da un’auto perde parecchie delle sue vite. Gliene resta una, e la trascorre da Papà Gattone, ovvero Daniele, musicista, con un passato da expat a Londra, rientrato a vivere nella casa degli ulivi. Nella prima parte del romanzo, che ha un tono più fiabesco, il sopravvissuto Giorgino condivide le crocchette con Quello Nero e Totorro, diventando in momenti diversi amante di entrambi, a cui poi si aggiungeranno i gattini-ragazzi Ziggy e Faccia Tonda. Il punto di vista è quello dei gatti: una prosa semplice, infantile quasi, che tratteggia dilemmi esistenziali e quesiti più mondani (“Cosa siamo noi?”, chiede Giorgino a Quello Nero dopo l’amore. “Gatti”, risponde l’altro). Se già si pensa ad altri libri che hanno dato la parola agli animali (tipo I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni), la svolta arriva al secondo capitolo quando si passa all’io del protagonista, amico di Daniele e scrittore, a cui gli stessi gatti si riferiscono come a io. Forgione racconta un tempo in cui felini e umani vivono sullo stesso piano. Una storia di uomini e gatti, che forse sono la stessa cosa. Un romanzo originale nella forma, nella struttura scomposta, nel ritmo veloce. Da un autore che nella biografia ha “la città delle chiese abbandonate”, non ci si aspetta che la città sia solo un epiteto, ma tant’è. Anzi, in questo romanzo diventa un epitaffio di tempi andati. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati