Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2015 nel numero 1133 di Internazionale.
La mia memoria è nella norma?
Non sono portata per i quiz di cultura generale. Posso ricordare oscuri dettagli di conversazioni avvenute molto tempo fa, ma non mi ricordo mai l’altezza delle montagne che ho scalato o i nomi dei gruppi pop. Invece il mio collega Richard è bravissimo a ricordare i fatti, ma non sa che pesci prendere quando deve richiamare alla mente i particolari delle sue esperienze passate. Dovremmo preoccuparci?In realtà la memoria è strettamente legata all’azione di dimenticare: il cervello scarta gran parte dei dati sensoriali che riceve. “Domani ricorderemo abbastanza bene una conversazione che abbiamo avuto oggi”, afferma il neurobiologo James McGaugh, dell’università della California, a Irvine. “Nel giro di una settimana molte di quelle informazioni andranno perse”. E dopo un anno quella conversazione sarà dimenticata.I ricordi sensoriali diretti durano solo pochi istanti. Alcuni diventano ricordi a breve termine, come un numero di telefono appena digitato. È difficile stabilire una quantità esatta, ma in media un cervello riesce a tenere a mente quattro cose alla volta per trenta secondi al massimo.Un’informazione particolarmente importante o significativa, per esempio una conversazione che contiene un insulto personale, si fissa nella memoria a lungo termine. “Ricordiamo in modo selettivo e chiaro i fatti che ci colpiscono a livello emotivo”, spiega McGaugh. La memoria a lungo termine si divide in due grandi tipologie: la memoria semantica registra i concetti, come l’idea di un treno, invece quella episodica riguarda le nostre esperienze personali, come un particolare viaggio in treno.Tutti conoscono almeno una persona con una memoria fattuale enciclopedica. Le persone con una memoria episodica sono una scoperta più recente. “Queste persone ricordano fatti di tanti anni fa come io e lei ci ricordiamo quelli della settimana scorsa”, afferma McGaugh. C’è anche il caso opposto, quello di persone che fanno fatica a ricordare perfino le esperienze più recenti. “Sanno che quel fatto è avvenuto, ma non sono mentalmente capaci di andare indietro, neanche di una settimana”, spiega Daniela Palombo, studiosa di memoria autobiografica alla Boston university.La maggior parte delle persone si trova tra questi due estremi. Come vuole il cliché, le donne di solito hanno una memoria episodica migliore. Quanto alla memoria semantica, gli uomini tendono a ricordare meglio le informazioni spaziali, mentre le donne sono più brave con quelle verbali, come gli elenchi di parole. Anche il tipo di personalità può influire: le persone aperte a nuove esperienze di solito hanno una memoria autobiografica migliore. L’invecchiamento influenza la capacità di ricordare le esperienze personali più che la memoria dei fatti. Lo stesso vale per la depressione. Se dopo aver compiuto 40 anni vi accorgete che non riuscite a ricordare nomi nuovi, non è per colpa del cervello sovraccarico (la capacità di memoria è quasi illimitata). Il vero motivo è che una serie di cambiamenti graduali nella struttura del cervello, come il calo della densità dei dendriti che contribuiscono a formare le connessioni tra i neuroni, rendono meno efficiente la creazione e il richiamo dei ricordi.Finché non vi accorgerete di avere difficoltà a svolgere attività semplici fatte tante volte o a seguire il filo di un discorso, non dovrete preoccuparvi più di tanto se la memoria segue vie misteriose. La memoria è soggettiva, spiega lo psicologo britannico Charles Fernyhough, della Durham university. “Le persone ricordano quello che per loro è importante. Ognuno di noi ha interessi diversi e questo influenza i processi mentali”, afferma. “A mia moglie interessano i fiori. Quando siamo in un giardino io vedo solo un’accozzaglia di colori, mentre lei ricorda tutto, anche i minimi particolari”.La memoria è un sistema formato da parti mobili che cambiano nel tempo, perciò è ovvio che la variabilità sia alta. “Ci sono grandi differenze tra una persona e l’altra”, afferma McGaugh. “Il fatto che non tutti ricordiamo le stesse cose è una caratteristica della memoria umana”.
Il mio tempo di attenzione è nella norma?
Negli ultimi minuti ho provato a controllare le condizioni atmosferiche con la mente. Grazie a una fascia Eeg che registra l’attività elettrica del mio cervello, devo solo indirizzare i pensieri verso un posto più caldo e smetterà di piovere, uscirà il sole e gli uccellini cominceranno a cantare. Almeno sul mio smartphone. Ma più mi sforzo e più la pioggia aumenta.L’apparecchio che sto usando si chiama Muse e serve a controllare i pensieri erranti, e quindi a ridurre lo stress e aiutare la concentrazione. Quando la mente divaga, ci sentiamo in colpa. “Le prove aneddotiche indicano che la maggior parte delle persone pensa di avere una mente che divaga più della media”, dice Jonathan Schoo-ler, dell’università della California a Santa Barbara. Schooler ha provato a misurare in laboratorio i livelli “normali” di attenzione, chiedendo alle persone di leggere estratti di Guerra e pace di Lev Tolstoj e interrompendole a intervalli non prestabiliti chiedendogli le loro impressioni. Questi studi hanno rivelato che trascorriamo tra il 15 e il 50 per cento del tempo con la testa tra le nuvole. Una tale mancanza di concentrazione può sembrare davvero inefficiente, ma forse non lo è. “È improduttiva per quello che stiamo facendo al momento”, afferma Schooler, “ma è produttiva rispetto a quello a cui stiamo pensando, qualsiasi cosa sia. Magari mentre leggo un libro penso a organizzare una festa: la mia capacità di lettura è compromessa, ma faccio dei passi avanti nell’organizzazione della festa”. Avere la testa tra le nuvole è un tratto evolutivo che aiuta a pensare e fare progetti per il futuro, attività che a loro volta favoriscono una creatività squisitamente umana. Forse però la nostra mente divaga troppo. Una preoccupazione comune è che la concentrazione risenta delle tante distrazioni provenienti dalla tecnologia. Secondo un recente rapporto pubblicato dalla Microsoft, dal 2000 al 2013 in Canada la soglia di attenzione media è scesa da 12 a 8 secondi, uno in meno di un pesce rosso.J. Bruce Morton, della Western university a London, in Canada, è scettico. Innanzitutto, non c’è una misura standard della soglia di attenzione. “La gente vuole sapere per quanto tempo si riesce a mantenere la concentrazione o quale dovrebbe essere la curva di attenzione di un bambino. Tuttavia di solito gli scienziati che studiano il fenomeno non si occupano di questi aspetti”. Per misurare la cosa che ci si avvicina di più – la capacità di rimanere concentrati su un’attività, o attenzione selettiva – si osservano gli spostamenti dell’attenzione su una scala di millisecondi. Per esempio, si chiede a una persona di dire ad alta voce il colore di alcune forme mano a mano che spuntano su uno schermo, ignorando altri elementi di disturbo. Gli esperimenti di questo tipo evidenziano che l’attenzione selettiva è molto variabile. È bassa nei bambini, forse perché il cervello in fase di sviluppo deve ancora imparare a controllare le zone che elaborano le informazioni sensoriali in entrata. Migliora fino ai 20 anni, si stabilizza fino alla mezza età e poi ricomincia a calare. Tuttavia non ci sono prove del fatto che la tecnologia ci renda più distratti, dice Morton. Anzi, ormai è così ben studiata e intuitiva da sfruttare la nostra capacità innata di pensare a cose diverse nello stesso momento.Se siete ancora preoccupati, potete adottare degli accorgimenti. State alla larga dall’alcol: quando si beve si è meno coscienti di avere la testa tra le nuvole, dice Schooler. “Quando si consumano bevande alcoliche la mente divaga molto di più senza accorgersene”. Le tecnologie che aiutano a controllare il pensiero, come l’applicazione sulle condizioni atmosferiche citata prima, possono essere d’aiuto: “Le persone che tengono l’attenzione allenata hanno molto meno la testa tra le nuvole”, conclude Schooler.
Le mie emozioni sono nella norma?
Vi è capitato di cominciare una giornata di buon umore e pieni di determinazione per poi sentirvi mancare il terreno sotto i piedi a causa di un commento sgarbato? Siete molto sensibili alla fame, alle sirene, agli odori forti e alle luci abbaglianti? Da bambini eravate timidi e riservati? Se avete risposto di sì a una o a tutte queste domande, probabilmente siete “persone altamente sensibili”. Al contrario, mantenete quasi sempre il sangue freddo, la calma e il contegno? Non vi fate influenzare dalle emozioni della gente e avete una forte autostima? In questo caso soddisfate alcuni criteri della psicopatia individuati negli anni settanta dallo psicologo canadese Robert D. Hare.La maggioranza delle persone preferirebbe non rientrare nelle categorie di “altamente sensibile” o “psicopatico”. Gli psicologi, però, hanno definito diversi parametri per valutare la gamma delle emozioni umane, ed è molto difficile avere un punteggio nella media su tutte. Per esempio secondo la psicologa Elaine Aron, della Stony Brook university di New York, una persona su cinque è ipersensibile.La nostra sensibilità all’ambiente dipende da un’ingarbugliata combinazione di migliaia di geni, spiega Michael Pluess della Queen Mary university di Londra. E questo è solo uno dei fattori che determinano la nostra cornice emotiva. Nel decennio scorso gli psicologi hanno individuato decine di variabili genetiche comuni alle persone altamente sensibili, che regolano per esempio ormoni chiave come la serotonina, la dopamina e l’ossitocina. Pluess ha riscontrato che molti di questi geni stimolano l’attività nell’amigdala, la zona del cervello in cui avviene l’elaborazione delle emozioni.Per fortuna non tutto il male viene per nuocere. Pluess ha scoperto che anche se spesso si sentono travolte dalle emozioni negative, le persone ipersensibili riescono a cogliere meglio aspetti positivi più sottili, hanno pensieri più profondi e di solito sono più creative. Una sensibilità più spiccata agli stimoli esterni potrebbe addirittura essere un tratto evolutivo, perché faciliterebbe l’adattamento ai nuovi ambienti. In generale, afferma Sarah Garfinkel dell’università del Sussex nel Regno Unito, le persone sensibili ottengono punteggi più alti nei test sull’empatia. Viceversa, le persone che provano meno empatia o meno rimorso possono essere più utili quando gli interessi del gruppo vanno anteposti a quelli individuali. “Sono il tipo di persone che licenzia centinaia di dipendenti per il bene dell’azienda”, dice Garfinkel.Il fatto che l’evoluzione non abbia selezionato una combinazione particolare di geni indica che la situazione ideale è un insieme di persone con tratti caratteriali diversi. E per quanto esistano aberrazioni evidenti (per esempio la psicopatia estrema che porta all’omicidio a sangue freddo), di solito le nostre reazioni emotive non prendono il sopravvento. Il merito è dei circuiti che collegano la corteccia prefrontale – la zona “pensante” del cervello – all’amigdala. “Questo significa che, entro certi limiti, un cervello sano è in grado di controllare le reazioni emotive con il pensiero e il ragionamento”, sostiene Garfinkel.Volete sapere se siete ipersensibili? Date un’occhiata ai questionari di Elaine Aron sul sito hsperson.com/test.
Le mie convinzioni sono nella norma?
Alice rise: “È inutile che ci provi. Non si può credere a una cosa impossibile”.“Oserei dire che non ti sei allenata molto”, ribatté la Regina. “Quando avevo la tua età, mi esercitavo per mezz’ora al giorno. A volte ho creduto fino a sei cose impossibili prima di colazione”.All’epoca di Lewis Carroll, autore di Alice nel paese delle meraviglie (1865), credere alle cose impossibili sarebbe stato interpretato come un segno di squilibrio mentale. Oggi sappiamo che è abbastanza normale: sei cose impossibili prima di colazione forse sono la regola.Le nostre convinzioni sono come una guida personale alla realtà: non solo ci dicono quello che è corretto dal punto di vista fattuale, ma anche quello che è buono e giusto. Plasmano il nostro comportamento. Sarebbe bello pensare che queste guide siano affidabili e spassionate, ma è dimostrato che non lo sono. Le convinzioni sono in gran parte il frutto della nostra psicologia fallibile, delle sensazioni istintive, delle persone che frequentiamo e delle differenze biologiche, per esempio quanto siamo impressionabili. Non potrebbe essere altrimenti: se dovessimo formare le nostre convinzioni basandoci sull’esperienza e la verifica diretta, faticheremmo a capire anche le basi della realtà fisica.Questo non vuol dire che crediamo a tutto. Gli adulti equilibrati di norma hanno un sistema interno di valori coerente, e in buona parte ancorato alla realtà. Ma c’è comunque spazio per le contraddizioni, il pensiero magico, il soprannaturale, il paranormale e tante altre cose impossibili, non solo prima di colazione ma tutti i giorni e a tutte le ore.Gli studi di Peter Halligan e dei suoi collaboratori all’università di Cardiff, nel Regno Unito, confermano che ogni individuo ha almeno una convinzione “semidelirante”. Si tratta di versioni ammorbidite di convinzioni che potrebbero essere descritte come sintomi di una patologia mentale: per esempio l’idea che i nostri familiari siano stati rapiti e sostituiti da impostori. La maggior parte delle persone convive con pensieri simili senza problemi.Quindi le convinzioni “normali” sono un grande contenitore. È normale credere che dio esista ed è altrettanto normale credere che non esista. Lo stesso vale per tutte le convinzioni politiche, sociali ed economiche di cui discutiamo all’infinito. È difficile sostenere che perfino le opinioni ritenute inaccettabili in una certa società – come il razzismo o l’apostasia – non siano “normali”. Se non vivete nell’illusione, è probabile che siete nella norma. Ma d’altro canto le illusioni sembrano vere, quindi l’unico modo per essere sicuri che le vostre siano “normali” è consultare lo psichiatra. E credere a quello che vi dirà.
Sentire delle voci nella testa è nella norma?
Per Socrate era il segno che stava per commettere un errore, per Sigmund Freud era un’amata che lo accompagnava quando viaggiava da solo: sentire le voci è una tradizione antichissima. E come dimostrano questi illustri esempi del passato non sempre è un segno di pazzia, i nostri pensieri quotidiani spesso ci “parlano”. Nel 2011 Charles Fernyhough e Simon McCarthy-Jones della Durham university, nel Regno Unito, hanno rilevato che nel 60 per cento dei casi “il discorso interno” ha la forma di un vero e proprio dialogo.Ma dove finisce il discorso interno e dove cominciano le voci “dall’esterno”? Una teoria è che quando ascoltiamo una voce interna “è come se fossimo noi a parlare”, spiega Fernyhough, e quindi ci sentiamo più in grado di controllarla. Ma visto che molti processi mentali sembrano involontari, la spiegazione non soddisfa del tutto. “Questa domanda è al centro dell’enigma delle voci che sentiamo e del perché non riusciamo a risolverlo”, afferma Ferny-hough.Nel loro studio più ambizioso, Fernyhough e i suoi collaboratori hanno stimato che tra il 5 e il 15 per cento della popolazione percepisce delle voci come provenienti dall’esterno, anche se di sfuggita o in modo occasionale. Circa l’1 per cento delle persone non affette da malattie mentali diagnosticate sente voci più insistenti e ricorrenti. Più o meno la stessa percentuale della popolazione soffre di schizofrenia, il che mette in discussione il presupposto che le due cose siano collegate. Fino a questo momento non sembrano esserci grandi differenze a livello cerebrale tra chi non è affetto da malattie mentali ma sente le voci e chi non sente nessuna voce. Secondo Fernyhough prima di preoccuparci, la cosa migliore è farsi una domanda semplice: le voci ci danno fastidio?Le voci non sono l’unica manifestazione dei nostri pensieri interni: la mente ci racconta anche delle storie. A volte questa “confabulazione” è un sintomo di un disturbo della memoria, che porta ad avere falsi ricordi. Ma succede a tutti. Gli esperimenti dimostrano, per esempio, che quando una persona è costretta a prendere una decisione casuale, in seguito inventa una narrazione per spiegarla.Una teoria è che questo aiuti a trovare un senso a un mondo che ci bombarda d’informazioni e a dare una giustificazione razionale a decisioni che prendiamo a livello inconscio. Secondo Robert Trivers, un biologo evolutivo della Rutgers university nel New Jersey, le nostre bugie hanno una funzione più strumentale: mentendo a noi stessi, impariamo a mentire meglio agli altri. Questo ci aiuta a spiegare il fenomeno noto come positivity bias o pregiudizio positivo, che porta tutti a sopravvalutare le proprie virtù. “Ognuno di noi si colloca nella metà superiore della distribuzione positiva”, dice Trivers. “Negli Stati Uniti l’80 per cento degli studenti delle superiori ritiene di essere sopra la media per capacità di leadership”. Con voci così lusinghiere, non c’è da preoccuparsi. Basta non fidarsi di quello che dicono.
Le mie ossessioni sono nella norma?
Nessuno sa da dove venga la convinzione secondo cui gli uomini pensano al sesso ogni sette secondi, ma quasi certamente non è vera. Nel 2012 Terri Fisher dell’università dell’Ohio a Columbus, negli Stati Uniti, ha dato a tre gruppi di studenti dei telecomandi e gli ha chiesto di premere il pulsante ogni volta che pensavano al sesso, al cibo o al sonno. In una giornata gli uomini hanno pensato al sesso 19 volte, le donne 10. Per il cibo, le cifre sono state rispettivamente di 18 e 14. Per il sonno, di 10 e 9. Se questi numeri vi tornano, potete considerarvi nella norma, almeno rispetto agli studenti dell’Ohio.Secondo uno studio analogo di Wilhelm Hofmann, oggi all’università di Colonia, in Germania, le attività piacevoli come mangiare, dormire, avere rapporti sessuali, bere alcolici, socializzare e fare shopping dominano i nostri pensieri spontanei. Gli esperimenti sono stati fatti sempre con degli studenti, questa volta tedeschi. Gli argomenti meno allegri sono più problematici. La maggior parte delle persone non ci pensa mai, a meno che si trovi faccia a faccia con la morte (un incontro ravvicinato con un camion o una massa sottocutanea sospetta). Secondo la cosiddetta teoria della gestione del terrore, sviluppata negli anni ottanta, la paura dell’inevitabilità della morte spiegherebbe la nostra ossessione per i piaceri immediati. Non tutti sono convinti che il disagio esistenziale abbia tutto questo rilievo nell’esperienza umana. Sappiamo però che circa il 15 per cento delle persone soffre di “ansia da morte”, un’ossessione morbosa che quasi di sicuro corrisponde a “una situazione non ottimale”, afferma lo psicologo Sheldon Solomon, uno dei padri della teoria della gestione del terrore. Secondo alcuni quest’ansia sarebbe il segnale di patologie come il disturbo ossessivo-compulsivo e l’agorafobia. In generale, però, l’umanità sembra condividere la stessa ossessione per le frivolezze. Russell Hurlburt, dell’università del Nevada a Las Vegas, ha cominciato a raccogliere campioni di flussi di pensieri negli anni settanta: “Ho riscontrato pochissimi pensieri profondi in questi campioni”, dice. “Ho fatto lo stesso esperimento con degli scienziati e anche lì non ho trovato pensieri profondi”.
I miei penseri compulsivi sono nella norma?
Avere pensieri erranti è il segno di un cervello sano, ma il problema è dove se ne vanno. Nella maggior parte dei casi i nostri pensieri vagano in maniera casuale o seguono associazioni libere. In altri, invece, si fissano sempre sullo stesso punto. Nel mio caso, i numeri. Passo il tempo a contare. Conto i passi e i gradini. Quando faccio le pulizie conto gli oggetti mentre li rimetto a posto e, in modo forse un po’ ossessivo, faccio sempre in modo di rimettere a posto un multiplo di dieci. Solo quando ho cominciato a studiare il fenomeno del pensiero errante mi sono resa conto di quanto fosse radicata e inconscia quest’abitudine.Da una rapida ricerca su internet ho capito che non sono sola. Ci sono decine di forum e blog che raccontano esperienze simili. Secondo una teoria, il pensiero compulsivo è un modo per tenere attivo il cervello durante attività noiose o ripetitive, un po’ come scarabocchiare su un foglio quando si è in riunione.Possiamo considerarlo come un “tormentone”, afferma David Veale dell’istituto di psichiatria del Kings College di Londra. Come un motivo orecchiabile che non ci togliamo dalla testa, contare serve a occupare la mente inoperosa. Per Paul McLaren, psichiatra del Priory hospital Hayes Grove, nel Regno Unito, la spiegazione è un’altra: questi pensieri rappresentano una sorta di rito mentale. “È quasi certamente un fenomeno ossessivo”, dice. I pensieri ossessivi e compulsivi, spiega McLaren, nascono come un vantaggio evolutivo perché ci preparano ad affrontare futuri rischi: “È un sistema immunitario psicologico”. Ecco perché molti pensieri o riti ossessivi comuni, per esempio quelli sulla pulizia, hanno a che fare con possibili minacce. È addirittura possibile che i pensieri ossessivi si siano evoluti come un meccanismo per migliorare le relazioni sociali: “La tendenza a comportarsi in modo rituale può aiutare la coesione sociale, e questo è un vantaggio adattativo”, afferma McLaren.Tutti sperimentiamo questo tipo di pensiero ossessivo, di solito tra i due e i quattro anni. Spesso i bambini sviluppano comportamenti rituali, come non calpestare le crepe del pavimento, e hanno bisogno di riti legati all’ora del sonno o dei pasti. Questo forse li aiuta a interpretare un mondo dove quasi tutto è nuovo e di cui non hanno il controllo. A quell’età “abbiamo bisogno di ordine e vogliamo che le cose siano sempre uguali”, afferma McLaren. Per alcune persone questo desiderio non passa mai.I pensieri ossessivi diventano un problema solo quando sono invadenti e provocano angoscia o impedimenti funzionali. Il fatto di contare in modo ossessivo può essere legato a un disturbo ossessivo-compulsivo, per esempio quando il desiderio di contare per allontanare i pericoli si rafforza proprio perché il pericolo non si materializza. Anche quando l’aspetto compulsivo non è così forte, se questi riti si sono evoluti per affrontare minacce dovrebbero acutizzarsi nei momenti di ansia, osserva McLaren. “Capita più spesso di avere comportamenti ossessivo-compulsivi durante i periodi di stress”.
(Traduzione di Fabrizio Saulini).
Gli autori di questo articolo sono Catherine de Lange, Caroline Williams, Graham Lawton, Alison George e Catherine Brahic.
Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2015 nel numero 1133 di Internazionale.
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