Nel 2005 trovai una maglietta con la scritta “I want to kill Barbie” sul volto di Candy Candy vestita da infermiera e imbrattata di sangue. Non aveva nessun senso come mix di riferimenti, ma la comprai con la stessa intensità rivendicativa con cui avevo preso quella di Never mind the bollocks dei Sex Pistols. Erano le magliette con cui andavo in terapia una volta alla settimana per parlare di quel che poteva succedermi se non avessi preso una decisione in fretta, se chi mi stava accanto non mi avesse aiutato a farlo: restare da questa parte o andare dall’altra. Per mesi le due ipotesi sono state altamente plausibili, nelle mie passeggiate lungo i binari o dentro le stazioni degli autobus non pensavo ad altro, ma c’è un disco che ha contribuito a sbilanciare le cose.
Era Ballate per piccole iene degli Afterhours, che ha compiuto vent’anni, quanti ne avevo io allora, un disco a cui è dedicato un tour a cui penso con struggimento, ma a cui mi è impossibile partecipare. Quell’anno andai a tredici concerti degli Afterhours, e ogni volta che partiva Ci sono molti modi o Il compleanno di Andrea qualcosa in me si frantumava e si rimetteva insieme con un movimento sincronizzato che anche oggi m’impedisce di accedere a queste canzoni con la placida nostalgia che ci aspetta dopo tutto questo tempo, perché il sentimento che mi assale è incontenibile. Ci si vergogna sempre della mano che ci ha guarito, scriveva Edgar Lee Masters, ed è il motivo per cui sto lontana da quel palco. Torneremo a scorrere, cantava Agnelli, e questo è il mio modo per dirgli grazie. Spero siano concerti bellissimi, per tutti quelli che sono rimasti. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati