Proprio mentre il dibattito politico globale riconosceva finalmente che l’umanità ha di fronte un male radicale – detto anche fascismo – su Teheran cadevano le bombe. Prima di arrivare in Iran il mostro informe e gigantesco del fascismo aveva già messo nettamente in chiaro a Gaza che noi, il popolo, non contiamo nulla. Da due anni l’umanità urla nelle strade con milioni di voci, scrive miliardi di parole per gridare una morale minima: non si possono uccidere bambini affamati che fanno la fila per un pezzo di pane. Eppure, da più di 630 notti, dal 7 ottobre 2023, l’umanità vive questo incubo, urlando inascoltata.

In passato ci sono state guerre che abbiamo cercato di impedire, senza riuscirci, e genocidi che non siamo stati in grado di fermare. Tuttavia, questa è stata la prima volta dopo la seconda guerra mondiale che l’umanità ha dovuto assistere a una scena da guerra apocalittica combinata a un genocidio, trasmessa in diretta come mai prima nella storia, temendo la distruzione totale della civiltà umana. In fondo, lo sappiamo tutti: anche se manifestiamo a milioni nelle piazze o organizziamo la più grande petizione per la pace, probabilmente non ne vedremo traccia sui social media o nei notiziari in televisione. L’umanità è stata hackerata dai pirati del cinismo, frutto di quell’abisso morale che chiamiamo neoliberismo.

L’umanità è stata hackerata dai pirati del cinismo, frutto di quell’abisso morale che chiamiamo neoliberismo.

Il male radicale che conduce lo show ci ignora così profondamente che abbiamo la sensazione di essere assolutamente inesistenti. Non possiamo rivolgerci alle istituzioni democratiche, perché sappiamo che molte delle decisioni che riguardano l’umanità sono prese nel chiuso di stanze segrete, con modalità che ricordano quelle mafiose, attraverso messaggi WhatsApp tra leader inaccessibili a qualsiasi strumento di democrazia rappresentativa. Insomma, in quanto cittadini del mondo siamo tagliati fuori. Una perdita così netta della possibilità di agire non si era mai vista, almeno nel mondo occidentale.

I paesi del sud globale l’hanno sperimentata molto prima che sulla scena politica occidentale comparissero dei leader come Trump. Molte di noi hanno scritto libri su libri e innumerevoli tesi di dottorato su come succede e sulle conseguenze che ha. Eppure, alla luce di vent’anni di esperienza in Turchia, questo è il nocciolo della questione: quando la gente è ignorata nonostante tutti i suoi sforzi e il concetto di cittadinanza diventa politicamente superato, le persone tendono a fare scelte politiche che mettono in discussione la nostra immagine idealistica degli esseri umani amanti della libertà, della dignità e dell’azione politica. La maggioranza si rimette in riga, magari per pura sopravvivenza o per provare un senso di “grandezza”. Con il tempo, questo male radicale trasforma gran parte della società in un organismo moralmente miserabile, più realista del re, o semplicemente anestetizzato. E molti sono così sfiancati dallo scontro da rinunciare alla possibilità di agire. Per sopravvivere scelgono di ritirarsi.

Dopo un po’, nessun livello di immoralità, nessun atto politico vergognoso commesso dal potere susciterà l’indignazione o la ribellione a cui eravamo abituati. Su come ci siano riusciti il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan in Turchia o il presidente Vladimir Putin in Russia sono stati già scritti molti libri. Ma non è stato studiato abbastanza il modo in cui noi abbiamo contribuito a questo processo, noi intellettuali, scrittrici, politici antifascisti, che avremmo dovuto fermarlo. E la risposta, in parole povere, è che perdiamo la capacità di agire quando non smettiamo la nostra recita.

A giugno ho tenuto varie conferenze e ho partecipato ad alcune tavole rotonde in Polonia, Italia, Austria e Paesi Bassi, affrontando innanzitutto la responsabilità urgente di prendere atto della nostra monumentale sconfitta. Il gioco politico, per come lo conoscevamo, è finito. La moralità in politica non esiste più, neanche per salvare la faccia. Il cittadino inteso come attore politico sta per sparire. La politica che si affida alla ragione o almeno la prende in considerazione è solo un’illusione alla quale continuiamo ostinatamente ad aggrapparci. Il ritegno che un tempo limitava il potere politico è ormai scomparso.

Tutti i dibattiti innocui e addomesticati sulla democrazia che organizziamo o a cui partecipiamo sono pressoché inutili. Gli editoriali che scriviamo sperando di arrivare al cuore e alla mente di chi ci rappresenta in parlamento o al governo sono impotenti. Il presupposto secondo cui “quando le persone conoscono la verità agiscono di conseguenza” non vale più. La spietata macchina neoliberista e i padroni del mondo non hanno più bisogno della democrazia, dello stato di diritto o di qualsiasi altro abbellimento liberale, e così le tradizionali élite politiche, accademiche e culturali che abitano ai margini del vecchio sistema di potere non sono più necessarie. Siamo semplicemente stati sconfitti dal nuovo ordine mondiale, che ha non solo il potere di commettere genocidi, ma anche quello di creare algoritmi che ci rendono invisibili.

Dopo essersi abituata negli ultimi dieci anni all’ottimismo e alla retorica motivazionale che chiude sempre con una nota positiva sulla democrazia, l’élite politica e culturale tradizionale ha paura di parole come “sconfitta”, che la espongono alla realtà e la costringono a cambiare radicalmente posizione. Eppure, “riconoscere la sconfitta” per me suona come la parola “liberazione”: è l’opportunità di liberarsi finalmente dalla sfibrante messinscena che continuiamo a interpretare, come se contassimo ancora qualcosa, come se la democrazia che conoscevamo potesse essere rimessa in piedi.

La parola “sconfitta” è liberatoria e al tempo stesso umiliante. C’è un’umiltà politica e morale nella sconfitta e, soprattutto, ci richiama alla solidarietà con l’urgenza della sopravvivenza. Ma se non smettiamo di recitare continueremo a rimandare l’urgenza e a ignorare il bisogno vitale di alzare il livello del nostro gioco politico. È per questo che contribuiamo alla perdita radicale di azione politica, perché la nostra posizione non tiene conto della radicale trasformazione del potere, e non accettiamo il fatto che non facciamo più parte della corte. Chi sta ai piani alti del potere non va più per il sottile, mentre noi ci comportiamo come se le vecchie regole di ingaggio civili fossero ancora valide.

Contribuiamo alla perdita di azione politica quando non diciamo la verità così com’è: noi non contiamo nulla. E non abbiamo nulla su cui contare, né le istituzioni né le leggi né i rifugi politici convenzionali. Possiamo contare solo gli uni sulle altre, ed è da qui che dobbiamo partire.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati