Un ricercato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e sotto processo per corruzione, che candida un pluri-imputato e condannato in via definitiva, che ha appena bombardato un altro paese, al premio Nobel per la pace. È successo anche questo il 7 luglio alla Casa Bianca, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è sporto sopra un tavolo apparecchiato intorno al quale erano seduti tutti uomini bianchi e attempati (a eccezione di sua moglie e della capa di gabinetto Susie Wiles) per consegnare una lettera al suo ospite, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
“Voglio presentarle, signor presidente, la lettera che ho inviato al comitato per il premio Nobel”, ha detto Netanyahu. “La candida al Nobel per la pace, che lei merita e dovrebbe ricevere”. Trump l’ha aperta, l’ha osservata e poi ha detto: “Grazie molte. Non lo sapevo. Venendo da lei in particolare è molto significativo”.
Netanyahu, che resterà fino a oggi negli Stati Uniti dove sta svolgendo una serie di incontri e riunioni, è apparso molto soddisfatto. E comprensibilmente. È al riparo dal mandato d’arresto emesso nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale (Cpi) perché Washington non ne riconosce la giurisdizione. È ospite di Trump per la terza volta da quando il presidente si è reinsediato a gennaio. E questa volta è tornato da vincitore, dato che ha appena inferto un duro colpo al nemico iraniano in dodici giorni di attacchi e bombardamenti.
Secondo il Guardian la sua forte posizione politica potrebbe fornirgli la “copertura diplomatica” di cui avrebbe bisogno per mettere fine alla guerra a Gaza senza dover affrontare una rivolta dei suoi sostenitori di estrema destra, che potrebbe far cadere il suo governo. Di certo la questione di un possibile cessate il fuoco nella Striscia di Gaza è al centro delle conversazioni tra Trump e Netanyahu. Mentre i due leader si scambiavano convenevoli, in Qatar si svolgeva il secondo giorno di colloqui indiretti tra i negoziatori israeliani e di Hamas, seduti in stanze diverse dello stesso edificio.
Sul tavolo c’è una proposta statunitense per una tregua di 60 giorni che prevede un rilascio graduale degli ostaggi di Hamas e dei prigionieri palestinesi, il ritiro delle truppe israeliane da alcune zone della Striscia e discussioni sulla fine della guerra. Ma ci sono alcuni nodi difficili da sciogliere. Secondo fonti palestinesi, Hamas chiede il ritiro completo dell’esercito israeliano, garanzie sulla conclusione delle ostilità dopo i due mesi di tregua e la ripresa degli aiuti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali. Netanyahu sostiene invece che la guerra finirà quando Hamas si arrenderà, si disarmerà e andrà in esilio, cosa che il gruppo palestinese si rifiuta di fare.
Ovviamente l’attenzione di tutti i mezzi d’informazione è puntata su queste manovre diplomatiche. Intanto però sono successe altre cose, e ancora ne succederanno nei prossimi giorni. Ecco un elenco parziale.
In volo sull’Europa
Dicevamo che Netanyahu può andare tranquillamente negli Stati Uniti perché, come Israele, Washington non ha firmato lo statuto di Roma che istituisce la Corte penale internazionale, responsabile di aver emesso lo scorso novembre i mandati di arresto nei confronti del premier israeliano per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza. Ma lo stesso non vale per altri paesi che, avendo firmato lo statuto di Roma, avrebbero l’obbligo legale di arrestare Netanyahu qualora si trovasse nel loro territorio. Come per esempio l’Italia, la Francia e la Grecia, che a quanto pare hanno consentito a Netanyahu di sorvolare il loro spazio aereo per raggiungere Washington.
Lo denuncia Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, che in un post su X scrive: “I cittadini italiani, francesi e greci meritano di sapere che ogni azione politica in violazione dell’ordine giuridico internazionale indebolisce e mette in pericolo tutti loro. E tutti noi”.
Albanese rispondeva a un post pubblicato dall’avvocato per i diritti umani Craig Mokhiber, che accusava i tre paesi di aver “fornito un passaggio sicuro al fuggitivo”. Così “hanno violato gli obblighi legali previsti dal trattato, hanno dichiarato il loro disprezzo per le vittime del genocidio e hanno dimostrato il loro spregio per lo stato di diritto”.
Il piano di Katz
Parlando ai giornalisti il 7 luglio, il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha presentato il suo piano per istituire una “città umanitaria”. Secondo il progetto, sorgerà sulle rovine di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, e ospiterà inizialmente 600mila persone, che ora sono sfollate nell’area di Al Mawasi, dopo essere state sottoposte a un controllo di sicurezza per accertare che non siano legate a Hamas. In seguito vi saranno trasferiti tutti gli oltre due milioni di abitanti della Striscia. Una volta dentro non potranno più uscire.
La costruzione della città dovrebbe cominciare durante i due mesi di tregua che si stanno negoziando in questi giorni. Il ministro ha anche chiarito che l’esercito israeliano si occuperà di garantire la sicurezza del perimetro del sito, ma non lo gestirà e non distribuirà gli aiuti. Per questo sono in cerca di partner internazionali disposti a contribuire al progetto.
Michael Sfard, uno dei più importanti avvocati israeliani per la difesa dei diritti umani, ha detto al Guardian che il progetto viola il diritto internazionale: “Katz ha delineato un piano operativo per un crimine contro l’umanità. Non è altro che questo. Si tratta di un trasferimento di popolazione verso la punta meridionale della Striscia di Gaza in preparazione della deportazione fuori del territorio. Mentre il governo continua a definire la deportazione ‘volontaria’, le persone a Gaza sono sottoposte a così tante misure coercitive che nessuna partenza può essere considerata consensuale in termini legali. Quando si caccia qualcuno dalla sua patria si tratta di un crimine di guerra, nel contesto di un conflitto. Se è fatto su scala massiccia, come lui intende fare, diventa un crimine contro l’umanità”.
Solidarietà
La settimana scorsa sui social media israeliani hanno circolato le immagini di alcuni uomini in piedi tra le macerie di Gaza con in mano le fotografie di Ariel e Kfir Bibas, due fratelli di quattro anni e di nove mesi diventati simbolo dei rapimenti di Hamas del 7 ottobre 2023 e i cui cadaveri sono stati restituiti alla famiglia lo scorso febbraio. Si è trattato di un’iniziativa lanciata dal Gaza youth committee, un’ong della Striscia di Gaza impegnata dal 2010 in attività a favore della pace e della coesistenza. Uno dei suoi fondatori, Rami Aman, l’ha coordinata dall’Egitto, dove attualmente risiede.
L’obiettivo era contrastare la disumanizzazione dei palestinesi e rispondere alle manifestazioni organizzate in Israele in cui le persone espongono le fotografie dei bambini uccisi a Gaza per protestare contro la guerra e il governo di Netanyahu. “Viene dal desiderio di mostrare agli israeliani che i palestinesi, nonostante la loro sofferenza, riconoscono ancora l’umanità dell’altro”, ha detto Aman a Haaretz. “Non si è mai trattato di giustificare la violenza ma di respingere l’idea che i palestinesi celebrano la violenza”.
La diffusione delle immagini sui social media ha provocato reazioni opposte. Diversi utenti hanno elogiato un’iniziativa che dà “speranza per la pace” e porta “una boccata di aria fresca in una realtà piena di razzismo e paura”. Altri l’hanno condannata come “guerra psicologica di Hamas” e un “falso esercizio mediatico condotto dagli assassini a Gaza”. Aman lo considera comunque un successo: “Sappiamo che il messaggio ha risuonato. L’iniziativa ha suscitato molti dibattiti, anche in Israele, e ha messo in discussione la narrazione dominante”.
La conferma di Abu Shabab
In un’intervista concessa il 6 luglio a Makan, la radio pubblica israeliana in lingua araba, Yasser Abu Shabab, capo di un gruppo armato palestinese che si oppone a Hamas nella Striscia di Gaza, ha ammesso di cooperare con l’esercito israeliano per condurre delle operazioni nel sud del territorio. Secondo quanto ha riferito, la sua milizia si può muovere “liberamente” nelle aree sotto il controllo dell’esercito israeliano, con il quale comunica prima di agire. “Noi li teniamo solo informati, le azioni militari le conduciamo da soli”.
Come denunciava un articolo di Mediapart tradotto su Internazionale all’inizio di maggio, Yasser Abu Shabab ha una quarantina di anni ed è il rampollo di una delle grandi famiglie beduine di Rafah. Incarcerato e condannato per omicidio sotto l’amministrazione di Hamas, è stato liberato durante la guerra. Dopo aver investito in una piccola fabbrica vicino al valico di Kerem Shalom, ne ha fatto il suo quartier generale e da lì ha cominciato a rubare gli aiuti umanitari bloccando i camion lungo la strada. Poi è passato agli assalti armati, che spesso avvengono nelle zone sotto il controllo dell’esercito israeliano, a volte a pochi passi dal valico.
“Non apparteniamo a nessuna ideologia o organizzazione politica”, ha detto Abu Shabab durante l’intervista. Ha spiegato di battersi contro “l’ingiustizia” e la “corruzione” di Hamas: “Continueremo a combattere, non importa quanto sangue sarà versato. In questo momento, Hamas è in agonia. I suoi affiliati sanno che la fine è vicina”. La settimana scorsa un tribunale militare di Hamas ha dato un ultimatum di dieci giorni a Yasser Abu Shabab per arrendersi ed essere processato. Il 6 luglio una coalizione di fazioni palestinesi, tra cui Hamas e la Jihad islamica, ha annunciato la sua intenzione di uccidere gli affiliati della milizia di Abu Shabab, chiamata Forze popolari.
Irriconoscibili
“Quando è stato rilasciato sembrava una mummia, come se non fosse davvero lui. Non l’abbiamo riconosciuto”. Così racconta ad Haaretz la madre di Ibrahim (nome di fantasia), 16 anni, uscito di recente dal carcere di Megiddo, uno dei più duri d’Israele. Nella sua inchiesta, il quotidiano israeliano rivela che negli ultimi venti mesi a Megiddo sono morti cinque prigionieri palestinesi, tra cui un minore. Secondo il Palestinian prisoner’s club in tutte le prigioni israeliane i decessi registrati sono stati 73.
A partire dalle testimonianze di ex prigionieri palestinesi e delle loro famiglie, Haaretz denuncia i trattamenti disumani diffusi nelle carceri israeliane: violenze e torture, privazione del cibo, negazione delle cure. Sono anche pubblicati grafici con il menù quotidiano riservato ai prigionieri, i profili dei palestinesi morti a Megiddo e la descrizione delle malattie più diffuse dentro il carcere. Queste condizioni sono comuni per i prigionieri palestinesi in tutte le prigioni israeliane, ma Megiddo, dicono alcuni avvocati, “è il peggio del peggio”.
Sotto attacco
Lunedì l’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani B’Tselem ha pubblicato un post su X per denunciare che dodici comunità a Masafer Yatta, un insieme di villaggi palestinesi in Cisgiordania dove Israele vuole costruire un’area di addestramento militare, rischiano l’espulsione immediata. La decisione presa il 18 giugno dall’ufficio centrale israeliano per la pianificazione di respingere automaticamente tutte le richieste presentate dagli abitanti palestinesi per risparmiare alcuni edifici spiana la strada alla distruzione di case, scuole e infrastrutture “entro giorni o settimane”, al trasferimento degli abitanti e alla totale annessione dell’area da parte di Israele.
In un articolo pubblicato alla fine di giugno sul sito indipendente +972 Magazine, Yuval Abraham e Basel Adra, due degli autori del film No other land, vincitore quest’anno del premio Oscar come miglior documentario, commentano che la decisione delle autorità israeliane accelera la pulizia etnica dei circa 2.500 abitanti di Masafer Yatta, che da mesi subiscono le aggressioni dei soldati e dei coloni israeliani. “La nuova direttiva si basa sull’uso che Israele fa da tempo delle zone militari come pretesto per l’esproprio delle terre e l’espansione degli insediamenti”.
Ne hanno parlato anche Gideon Levy e Alex Levac su Haaretz, accusando Israele di aver dato “nuova intensità e frequenza” ai “pogrom” compiuti nella zona dai coloni, con la complicità dell’esercito, durante i dodici giorni di guerra contro l’Iran.
Ancora in mare
Domenica prossima, il 13 luglio, è prevista la partenza di una nuova imbarcazione della Freedom flotilla coalition da Siracusa, in Sicilia, con l’obiettivo di raggiungere la Striscia di Gaza e rompere il blocco israeliano. Come si legge in un messaggio pubblicato sui social media dal movimento internazionale, la nave sarà carica di aiuti umanitari e porterà “un messaggio di solidarietà dalle persone di tutto il mondo che rifiutano di rimanere in silenzio mentre Gaza è affamata, bombardata e ridotta in macerie”. A bordo ci saranno attivisti, avvocati, medici e giornalisti.
La missione segue di un mese quella della nave Madleen, i cui partecipanti, compresa l’ambientalista Greta Thunberg, sono stati fermati dalle forze armate israeliane in acque internazionali e poi rimpatriati. Questa volta la barca si chiama Handala, dal nome del personaggio disegnato dal vignettista palestinese Naji al Ali, ucciso a Londra nel 1987 per le sue idee politiche, che rappresenta un bambino di spalle ed è il simbolo dell’infanzia palestinese. “Questa missione è per i bambini di Gaza”, si legge nel messaggio della coalizione.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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