Partiamo dalla copertina di Insularities di Fabrizio Cammarata (appena uscito per Fat Sounds): è inevitabile pensare al lavoro del fotografo americano Ryan McGinley, che collocava una gioventù irrequieta in mezzo ad abissi, fuochi d’artificio e campi di grano sterminati, lasciandoci molte percezioni sul loro presente e nessuna idea del loro futuro. Per tanti aspetti i protagonisti di quelle foto finivano lì. Nella cover di Insularities, opera dell’artista canadese Amy Friend, si percepisce invece un abbozzo di destino, un momento di voglia e forse di lotta che non ristagna nella memoria. È il corredo visivo migliore per il disco di Cammarata, cantautore di origini palermitane che è andato ovunque e lambisce la memoria e il fatalismo nativo senza farlo appunto ristagnare.
Spezzando i legami tra il recupero dei suoni ancestrali della tradizione (si parla di un sud molto ampio) e la loro rivisitazione robotica e metallica – operazione che assume toni un po’ prevedibili dopo l’iniziale sorpresa – qui l’universo vocale e strumentale si fa più largo e coerente con l’idea di canzoni che dicono qualcosa e un po’ ci mancavano. La processione di Come what may convive con il pop agrodolce post-Radiohead fatto di un vibrato distorto e malinconico, impensabile senza aver attraversato l’esperienza del rock fm statunitense, ma anche il pop acustico italiano tra anni novanta e duemila. Ci sono di nuovo i ritornelli e in generale torna una sensazione d’intelligenza melodica. Un disco che scorre benissimo dal primo ascolto e che offre una rara esperienza di coesione. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati