Il 7 ottobre il prezzo dell’oro ha superato per la prima volta la soglia dei 4.000 dollari all’oncia troy (31,1035 grammi). Poco più di sei mesi fa, a marzo, era a 3.000 dollari, mentre nel giro di un anno il valore è raddoppiato. Questi dati sono il frutto della corsa sfrenata degli investitori verso beni che li tengano il più possibile al sicuro dalle minacce dei tempi incerti in cui viviamo, e in particolare dalle minacce del dollaro statunitense, la valuta della principale economia mondiale. Dal 1 ottobre gli Stati Uniti sono entrati in shutdown, il blocco delle attività federali, una situazione che si verifica quando i partiti al congresso non riescono a trovare un accordo sulla legge di bilancio.

Non è certo una situazione inedita, visto che da sempre l’oro è il bene rifugio per eccellenza. Questa volta però è diverso, volendo parafrasare il titolo di un famoso saggio dell’economista statunitense Kenneth Rogoff uscito nel 2011, in piena crisi dei debiti pubblici in Europa. Come fa notare il Wall Street Journal, infatti, la corsa all’oro versione 2025 non è la conseguenza di un qualche disastro finanziario. Anzi, tutto sembra andare a gonfie vele per chi ha soldi da investire: negli Stati Uniti Donald Trump vuole rafforzare l’economia facendo tagli alle tasse, mentre la borsa vola grazie all’entusiasmo generato dall’intelligenza artificiale (nel giro di poche settimane la OpenAi ha messo insieme investimenti per mille miliardi di dollari attraverso accordi con aziende come la Nvidia, la Oracle e la Amd).

Lo spauracchio da cui fuggono gli investitori non è comunque immaginario, ha un nome e cognome: Donald Trump. A Wall street c’è chi cerca un rifugio per quando (il come e il quando sono incerti, il se molto meno), la retorica populista del presidente esploderà con tutte le sue storture e contraddizioni. Per esempio quando il già enorme debito pubblico federale lieviterà ulteriormente a causa dei tagli alle tasse (dei più ricchi), voluti dalla Casa Bianca ricorrendo in gran parte a nuovi debiti; quando esploderà la bolla intorno all’intelligenza artificiale; oppure quando Trump, una volta conquistata la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti), potrà stampare moneta a piacimento per finanziare i suoi progetti, facendo aumentare l’inflazione.

Un tempo, aggiunge il quotidiano finanziario statunitense, gli investitori si sarebbero diretti anche verso i titoli di stato, tradizionalmente considerati beni più che affidabili. Oggi non è più così: anzi, la potente banca d’affari Goldman stima che il prezzo del metallo giallo potrebbe raggiungere quota cinquemila dollari se solo l’1 per cento dei titoli di stato statunitensi in mano a privati venisse mollato per correre verso l’oro.

I record dell’oro non sono dovuti esclusivamente agli Stati Uniti, influisce anche il resto del mondo. Molte banche centrali, per esempio, hanno aumentato nettamente i loro acquisti del metallo giallo, soprattutto dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina: le sanzioni occidentali, che hanno provocato il congelamento dei fondi della banca centrale russa custoditi negli Stati Uniti e nei paesi alleati di Washington, hanno reso evidente che gli investimenti in valute straniere sono troppo rischiosi. Tanto più ora che con Trump la Casa Bianca ha cominciato a usare il suo dominio economico e finanziario globale come arma per assoggettare il resto del mondo – in particolare i suoi tradizionali alleati occidentali – ai progetti che dovrebbero “far tornare grande l’America”.

Ken Griffin, il capo della Citadel, uno dei più grandi fondi d’investimento del mondo, ha dichiarato di recente che le persone “cominciano a vedere l’oro come un porto sicuro nei confronti del dollaro. Stiamo assistendo a una sostanziale fuga di chi è in cerca di un modo per ‘de-dollarizzare’”.

È così che nel 2024 le banche centrali hanno comprato più di mille tonnellate d’oro per il terzo anno consecutivo, arrivando a detenere un quinto di tutto il metallo giallo mai estratto. Ma bisogna tener presente che gli investitori sono in fuga anche dall’instabilità e dai problemi economici di altri paesi: vedi la Francia, il cui sistema politico è ormai incapace di esprimere un governo in grado di affrontare i gravi problemi delle finanza pubblica e dove a destra e a sinistra avanza inesorabile il populismo. Lo stesso discorso vale per il Regno Unito e per il Giappone, dove la prima ministra Sanae Takaichi vuole un controllo maggiore del governo sulla banca centrale.

Il prezzo dell’oro è come un barometro che permette di prevedere le tempeste in arrivo: in questo caso la sua salita non lascia sperare in niente di buono. Cosa potrà far rientrare il pericolo? Non c’è un particolare disastro finanziario a cui porre rimedio, oggi bisogna guardare più alla politica che alla finanza. La fine della guerra in Ucraina? Evento possibile, ma ancora difficile nel breve periodo. Un Trump che smette di bullizzare il resto del mondo? Evento estremamente improbabile. Una svolta in Francia e in altri paesi alle prese con l’ingovernabilità e i buchi di bilancio? Staremo a vedere, anche se in quest’ultimo caso si potrebbe dover passare, prima di vedere un po’ di luce, attraverso un qualche governo populista, di destra o di sinistra, con conseguenze davvero imprevedibili.

Nel frattempo gli investitori puntano anche su beni rifugio diversi dall’oro. Il più ricercato sembra essere il bitcoin, insieme alle altre criptovalute in circolazione, da alcuni definite il “nuovo oro digitale”. Il 5 ottobre il bitcoin ha registrato il record di 125.689 dollari. Ci sono poi i diamanti, anche se da qualche anno perdono valore dopo l’arrivo delle pietre di alta qualità realizzate in laboratorio.

Bloomberg tuttavia fa notare che hanno almeno un vantaggio rispetto all’oro: riescono a fermare i proiettili. È quel che successe nel 1918 durante la tragica esecuzione dei Romanov, l’ultima dinastia zarista, da parte dei bolscevichi. “Lo zar e la sua famiglia avevano così tanti gioielli cuciti nei loro vestiti che molto proiettili erano stati rimbalzati. Ma alla fine i soldati decisero di ucciderli con le baionette”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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