Devo essere sincera, durante questo brutale genocidio ho davvero capito, per la prima volta in vita mia, cosa significa aver fame. È un’esperienza completamente nuova e terrificante. Ho vissuto molte guerre in passato, ma non è mai stato come adesso.

Ora sto morendo di fame.

Questa carestia non è arrivata all’improvviso. Si è insinuata a poco a poco, in modo sempre più crudele. La fame c’era già nei primi giorni della guerra, ma con il tempo è diventata più profonda, più dolorosa, più insopportabile. È un dolore che non avrei mai immaginato di provare, non in questo modo, non così intensamente. Sono sopravvissuta a molte guerre a Gaza. Ho sentito gli aerei, ho visto le bombe e ho seppellito i morti. Ma non avevo mai conosciuto la fame. Non ancora. Questa volta non ne sono solo testimone, la sto vivendo. Sto morendo di fame insieme a più di due milioni di persone intrappolate a Gaza, dove il cibo è diventato un ricordo, non un diritto.

Al culmine della carestia, non avevo altra scelta che continuare ad allattare mia figlia, ben oltre quello che sarebbe normale. Aveva 17 mesi. Io ero gravemente denutrita. Il mio corpo s’indeboliva di giorno in giorno. Ho perso 18 chili. Mi tremavano le gambe. Camminare era diventato difficile. Crollavo senza preavviso, mi sentivo svenire e la vista mi si annebbiava. Ma continuavo ad allattarla, non avevo alternative. Non c’erano latte in polvere né omogeneizzati né cibo da nessuna parte. Il mio corpo, già allo stremo, era l’unica cosa che la teneva in vita.

Poi il mio latte si è fatto sempre più scarso. Non ero più in grado di produrne abbastanza per sfamarla. Esausta e dolorante, la guardavo piangere per la fame tra le mie braccia. Poi un giorno il latte si è fermato del tutto. Sentivo di aver fallito nei suoi confronti.

Ora mia figlia ha tre anni. Ha vissuto più della metà della sua vita in una zona di guerra. Il suo corpo è cresciuto con avanzi di cibo in scatola, lattine e razioni recuperate nel caos. Il suo piccolo stomaco non ha mai conosciuto la frutta, la dolcezza di una banana matura, la croccantezza di un cetriolo fresco. Non riconosce le verdure. Non ha alcun ricordo di yogurt, formaggio o riso che non fossero scaduti o ammuffiti. Ciò che mi spezza il cuore è che non sappia nemmeno cosa sia una semplice merendina. Non ha mai tenuto in mano un succo di frutta. Non ha mai aperto un sacchetto di patatine, non ha mai sorriso al rumore di una confezione che si apre. Quel tipo di gioia, così piccola, così normale altrove, qui è inimmaginabile.

Una volta, durante la guerra, un medico straniero volontario a Gaza mi ha dato una piccola barretta di cioccolato. L’ho data a mia figlia. Non dimenticherò mai come le si sono illuminati gli occhi quando l’ha assaggiata. Era come se avesse appena scoperto qualcosa di magico, d’impossibile e sacro. Ha chiuso gli occhi e ha assaporato ogni piccolo morso. Quel momento mi ha spezzato il cuore. Una cosa semplice come il cioccolato non dovrebbe sembrare un miracolo. Ma a Gaza i miracoli arrivano in cartocci di alluminio, e non durano.

Da quel giorno mi porto dentro un senso di colpa insopportabile, la sensazione di non essere all’altezza. Di aver fallito, non perché le manchi il mio amore ma perché non sono in grado di garantirle il diritto più fondamentale: quello di mangiare. Anche quando lo si trova nei mercati, il cibo è spesso immangiabile o così costoso che è come se non ci fosse. Il prezzo dei beni di prima necessità è aumentato di più del 300 per cento. Non si tratta solo di carestia, è violenza economica. Ci stanno affamando intenzionalmente.

Quando fu annunciato che gli aiuti umanitari statunitensi erano arrivati a Gaza, la gente diceva che potevamo andare a prenderli. Io vivo vicino a uno dei punti di distribuzione indicati. Ma non ci sono andata. Non perché non fossi disperata, ma perché sapevo cosa mi aspettava. Quei punti di distribuzione sono trappole. La gente viene attirata con la promessa di cibo poi uccisa a colpi di arma da fuoco, come passeri. Gli affamati sono diventati bersagli.

Ho preferito mettermi sul ciglio della strada, di sera, chiedendo a chi aveva della farina se me ne poteva vendere un po’. Ma la risposta era sempre la stessa: “Non mangiamo da giorni”. Un uomo mi ha detto: “Mia moglie ha partorito ieri. Ho rischiato la vita per procurarmi questo sacchetto. Voglio solo darle da mangiare perché possa nutrire il nostro bambino”.

Ho smesso di chiedere quando ho visto un carro che correva verso l’ospedale, carico di corpi, feriti e morti. Il sangue gocciolava dai lati. La farina era intrisa di sangue. In quel momento mi si è rivoltato lo stomaco. Come siamo arrivati a questo? Dover rischiare la morte ogni giorno per un sacchetto di farina?

In seguito sono uscita di nuovo, stavolta di giorno, per raccogliere immagini di chi riceveva la farina vicino alla spiaggia, in un punto di distribuzione. Nell’aria si addensava il ronzio dei droni israeliani. Le navi da guerra incombevano al largo della costa. I carri armati erano schierati a meno di un chilometro di distanza. Eppure migliaia di persone si erano radunate, dopo aver camminato per ore sotto il sole cocente, con la speranza di qualche pugno di farina.

Quando sono arrivati i camion con il cibo, sono cominciati i bombardamenti.

I carri armati hanno sparato sulla folla senza preavviso. Le persone che avevano camminato a piedi nudi tra le macerie solo per sfamare i loro figli venivano uccise sul posto.

Sono scappata. Non sono riuscita a finire le riprese. Il luogo si era trasformato in un campo di battaglia pieno di urla, fumo e corpi che esplodevano.

Da quel giorno, per me il sapore della farina è cambiato. Non è più solo cibo. È un simbolo. Qualcosa che desideriamo ardentemente, per cui siamo disposti a morire, che porta con sé il peso del dolore. Anche adesso, farei di tutto per un po’ di farina, per cucinare qualcosa per mia figlia. Ma non posso dimenticare come quella farina è stata consegnata: imbrattata di sangue, avvolta in un sudario di morte.

A Gaza, il cibo è diventato un’arma. Ci bombardano dall’alto, ma siamo anche sistematicamente ridotti alla fame. Non sono solo gli aerei, i droni, i carri armati. Sono i posti di blocco. Sono le mappe di evacuazione. La mancanza di medicine. È il silenzio del mondo. È il bambino che muore fuori da un ospedale perché non ci sono più medici, né carburante, né chirurghi, né speranza. È la madre che cerca del riso in un mercato andato a fuoco. È la famiglia che scava tra le macerie alla ricerca di fagioli in scatola.

È il genocidio compiuto con ogni mezzo, lento e rapido, silenzioso e assordante.

Eppure, ogni giorno ci alziamo e ricominciamo. Perché non abbiamo altra scelta.

È il 25 luglio 2025. Sto scrivendo con le mani che tremano, un mal di testa che mi martella il cranio e una nebbia che mi offusca la vista. Il mio corpo sembra fluttuare, privo di peso per la fame, svuotato di quelle forze che un tempo davo per scontate. Sono mesi che non mangio tre volte al giorno. All’inizio era sopportabile. Pensavo: è così che funziona la guerra, cambia le tue abitudini. Ma con il tempo, quello che era un pasto saltato è diventato un pasto al giorno. E ora anche quello sembra un lusso.

Oggi ho mangiato solo tre datteri. Tre piccoli datteri. Non ho più cibo in cucina. Avevo un po’ di riso, solo un piatto, ma l’ho dato a mia figlia. Sta ancora crescendo. Il suo piccolo corpo ha bisogno di alimenti che non sono più in grado di darle. L’ho guardata mangiare e ho provato sollievo e colpa, sollievo perché almeno aveva qualcosa da mangiare, colpa perché non avevo altro da offrirle. Ogni cosa che mangia è una battaglia vinta contro questa carestia. Ogni cosa che non mangio è un sacrificio che faccio perché abbia la possibilità di vivere come gli altri bambini del mondo, bambini che mangiano, giocano e dormono al sicuro.

Quella che stiamo vivendo ora non è solo fame. È inedia. Un’inedia progettata, trasformata in un’arma. Anche quando ho dei soldi, e a volte succede, gli scaffali sono vuoti. I mercati sono città fantasma. L’assedio ha trasformato Gaza in una prigione senza cibo, senza rifornimenti, senza alternative.

Non stiamo morendo di fame per caso. Ci stanno affamando di proposito.

E l’orrore va ben oltre il vuoto del nostro ventre. La gente ormai muore per gli scarti, per le briciole, per la farina.

Appena due giorni fa stavo documentando quello che poi è diventato un massacro nel nord di Gaza, nella zona di Zikim. Si era sparsa la voce che dopo una settimana di assenza sarebbero finalmente arrivati i camion con gli aiuti. Migliaia di persone disperate si erano radunate, in attesa del miracolo del cibo. Ho visto i loro occhi vuoti, infossati, affamati, ma ancora pieni di speranza. Sono arrivati otto camion. Otto camion per un’intera provincia. Questi non sono aiuti. Sono un insulto. Eppure la gente continuava a correre verso di loro, come se corressero verso la vita stessa.

Poi sono cominciati gli spari.

I carri armati israeliani hanno aperto il fuoco. Poi è toccato alle navi da guerra. I droni hanno sorvolato la folla e hanno sparato su persone che volevano semplicemente sfamare le loro famiglie. Ho visto corpi cadere prima ancora di aver raggiunto i camion. Il bianco della farina si mescolava al rosso del sangue dei caduti e, per un attimo, non sono riuscita a distinguere il cibo dalla morte.

Sono state uccise più di ottanta persone. Più di trecento sono state ferite.

E in mezzo a tutto ciò ho pensato: è a questo che siamo arrivati? Morire per un sacchetto di farina? Mentre il resto del mondo butta cibo nella spazzatura senza pensarci due volte?

È stato allora che ho capito: noi non viviamo solo in un posto diverso, viviamo in un altro universo. Un mondo parallelo. Un mondo dove il tempo si è fermato e la pietà è scomparsa.

Guardo il mio riflesso e non riconosco la donna che ricambia il mio sguardo. Le costole che premono sulla pelle. Le ossa sporgenti dei fianchi. Il mio corpo, un tempo morbido e pieno di vita, sta svanendo in qualcosa che non avrei mai immaginato di vedere. Sento che sto perdendo lentamente non solo la mia forza, non solo la mia salute, ma l’essenza stessa di ciò che sono. La mia femminilità.

La mia dignità. La mia umanità.

Questa carestia non sta solo uccidendo i nostri corpi. Ci sta cancellando, pezzo a pezzo. ◆ an

Shrouq Aila è una giornalista e produttrice televisiva palestinese, direttrice dell’agenzia Ain Media, che ha rilevato dopo l’uccisione del marito Roshdi Sarraj, cofondatore della stessa agenzia, durante la guerra a Gaza. Vive nella Striscia di Gaza. Questo articolo è un estratto del suo libro Hanno ucciso habibi (Wetlands 2025), tradotto da Anna Nadotti e recensito a pagina 86. Tutti i proventi del libro sono devoluti all’autrice.

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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati