“Insomma, tante parole per dire niente; è un’arte anche questa”, scrive Edda a commento del suo brano Giorni di gloria, una delle anticipazioni dell’album Messe sporche in uscita il 17 ottobre (stavolta solo su cd e vinile). Ascolto Edda e ogni volta penso a certi generi scomparsi della letteratura italiana del novecento, i sillabari, gli epigrammi e i diari infranti; gli elettrocardiogrammi poetici che si stagliano luminosi rispetto alle ambizioni delle grandi cronache e dei grandi romanzi, e provo soprattutto una forte gratitudine nei suoi confronti. Per essere tornato quando doveva tornare, per avere ancora la voglia di agitarsi in mezzo a noi. Più mosso stavolta rispetto a Illusion del 2022, che fu anche il mio disco dell’anno, Edda torna con la forza delle sue ostie sciolte in bocca, in cui dissolve la melodia delle canzonette all’italiana – l’incantevole Mucca rossa – in una sostanza riconoscibile eppure sempre inedita che ci fa sentire mezzi eletti e mezzi salvi, nauseati il giusto e scomodi il giusto. È una questione di dosaggio; è la capacità di collocare chi lo ascolta tra l’approdo e la sorpresa. Di usare immagini e sonorità punk e desuete (Belisotta) che non fanno mai effetto museo delle stranezze, anzi. Edda è un artista classico, fedele alla propria lingua, che sa rigenerarsi a ogni disco perfettamente cadenzato rispetto all’idea di necessità: la mia impazienza rispetto alla miriade di uscite viene proprio purificata dalla sua presenza. Del maiale non si butta via niente, si dice, ma pure del maestro generoso e imprevisto, quando abbiamo la fortuna di averlo attorno. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati