In questi giorni non celebreremo la fine del conflitto israelo-palestinese. Forse nemmeno la fine della guerra di Gaza, la più lunga e sanguinosa di tutta la storia di questo conflitto. Ma potremo celebrare, a meno di altri colpi di scena, l’interruzione parziale o totale di uno dei peggiori massacri dell’inizio del ventunesimo secolo.
Tutto si può dire del presidente statunitense Donald Trump, e lo si è detto, ma senza di lui non sarebbe stato possibile. Trump ha fatto più del suo predecessore, a prescindere dalle sue motivazioni, per fermare il massacro. Ha costretto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a cedere. E con l’intermediazione dei paesi arabi ha convinto anche il movimento islamista palestinese Hamas. Le bombe si sono fermate, gli ostaggi israeliani sono stati finalmente liberati e i prigionieri palestinesi sono stati rilasciati. Gaza potrà finalmente immaginare di respirare, mangiare, guarire, ballare, ma in mezzo ai cadaveri e alle macerie. Allontanarsi dalla morte senza tornare del tutto alla vita.
Sarà necessario un Donald Trump molto vigile affinché il piano di pace non si riduca a una tregua, più o meno lunga, prima che la guerra riprenda magari sotto un’altra forma
Tutto questo per cosa? Un genocidio per niente. Una guerra genocida conclusa, sempre che sia davvero così, con un accordo traballante che si sarebbe potuto firmare un anno fa, visto che il piano Trump riprende ampiamente le proposte dell’amministrazione Biden.
Hamas canta vittoria perché ha “resistito” contro tutti. E poco gli importa delle decine di migliaia di morti, della scomparsa dell’enclave palestinese, di aver trascinato con sé nella caduta il cosiddetto asse della resistenza (il nome usato dai gruppi che si oppongono a Israele e sono sostenuti dall’Iran); per Hamas conta solo il fatto di non essersi inginocchiato di fronte al nemico. Il cammino verso la “liberazione” della Palestina ai suoi occhi vale ogni sacrificio. Magari fosse così! Se solo i massacri del 7 ottobre 2023 avessero fatto avanzare la causa palestinese e portato qualcosa che non fosse infelicità e desolazione.
Si può capire chi continua a dire, nonostante quasi ottant’anni di sconfitte palestinesi e arabe, che la lotta armata è l’unico strumento per far avanzare la causa. Possiamo anche capire chi ritiene che il 7 ottobre sia stato una risposta logica a decenni di sofferenza e umiliazione. Ma non possiamo capire né perdonare chi oggi canta vittoria dopo aver trascinato un’intera popolazione nell’abisso. In un mondo sensato, Hamas invece di essere celebrato sarebbe giudicato colpevole di alto tradimento contro il suo stesso popolo. Ma come Hezbollah e il suo sponsor iraniano, troverà sempre degli animi zelanti o degli utili idioti che continueranno a difenderlo, negando la realtà.
Come dire tutto questo senza fare il gioco di Israele? Come dirlo senza dare la sensazione di aver dimenticato che prima del 7 ottobre i palestinesi stavano già scomparendo, un po’ alla volta? Come dirlo senza dare l’idea di voler minimizzare i crimini commessi dallo stato ebraico negli ultimi due anni? Come dire quanto sia giusta la causa palestinese senza cedere in alcun modo al morboso gioco al rialzo di Hamas e dei suoi alleati?
Dall’altra parte, anche Netanyahu celebra il suo trionfo. Israele è isolato e odiato. L’antisemitismo esplode ovunque. Il suo esercito ha ucciso decine di migliaia di civili, di cui almeno un terzo erano bambini, ha raso al suolo intere città e villaggi e ha cambiato il volto di tutta la regione. Ma il premier israeliano è ancora al suo posto. L’asse della resistenza è in ginocchio e lo stato palestinese non vedrà mai la luce. Questa per lui è la cosa più importante. Ed è il motivo per cui la guerra probabilmente non è finita. Perché Israele canterà veramente vittoria solo quando avrà ottenuto, oltre alla distruzione di Hamas, anche e soprattutto che i palestinesi non possano più rivendicare un territorio degno di questo nome, né a Gaza né in Cisgiordania. Ma anche perché a sua volta il cosiddetto asse della resistenza ammetterà la sconfitta solo quando avrà esalato l’ultimo respiro.
Il cessate il fuoco a Gaza, quindi, sarà simile a quello in Libano? È uno degli scenari possibili, con Hamas che (come Hezbollah) rifiuta di consegnare le armi, sfrutta il lungo periodo, ricostruisce le sue forze e difende il proprio orticello sulla scena politica palestinese. E con Israele che continua a bombardare l’enclave in totale impunità, a occupare e a rosicchiare territorio con l’obiettivo di soffocare l’avversario e imporre un fatto compiuto.
Sarà necessario un Donald Trump molto vigile (ma il presidente statunitense non è noto per la sua pazienza) affinché il piano di pace non si riduca a una tregua, più o meno lunga, prima che la guerra riprenda magari sotto un’altra forma. Il 7 ottobre ha fatto riaffiorare dei mostri che continuano a perseguitarci. Resteranno lì finché non ci sarà la pace. E non ci sarà la pace finché non ci sarà giustizia. Oggi siamo lontani da questa possibilità. Ma per la prima volta da due anni abbiamo uno spiraglio di speranza. ◆ fdl
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1636 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati