Torna lo spauracchio del nemico interno. Per Donald Trump, impegnato in Medio Oriente e nei Caraibi, il “fronte” principale sembra essere quello nazionale, rappresentato dallo “stato profondo”, dai “marxisti”, dai “terroristi antifa” e da chiunque si opponga alla deriva autoritaria del 47° presidente degli Stati Uniti.
Nei primi mesi dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, Trump sembrava andare avanti senza grandi resistenze, con il Partito democratico all’opposizione stordito dalla sconfitta e una popolazione inizialmente rassegnata. Le cose a quanto pare sono cambiate.
C’è un risveglio di resistenza al controllo esercitato dal movimento Maga (make America great again) sugli ingranaggi della democrazia statunitense. Il successo della giornata di proteste chiamata No Kings day, il 18 ottobre, è stato spettacolare, con più di sette milioni di manifestanti. Ma non è l’unico segnale.
Centinaia di studenti hanno lanciato un appello a contrastare le regole che la Casa Bianca vuole imporre alle università, mentre la maggior parte dei giornalisti accreditati al Pentagono si rifiuta di obbedire al diktat del segretario alla guerra Pete Hegseth, che vuole vietare l’uso di fonti diverse da quelle ufficiali. L’ammiraglio Alvin Holsey, capo del comando sud degli Stati Uniti, si è dimesso dopo neanche un anno dalla nomina, sottolineando di aver prestato giuramento alla nazione, non al presidente. I sindaci democratici delle città in cui Donald Trump ha inviato la guardia nazionale, come Portland o Chicago, si oppongono con le unghie e coi denti alla militarizzazione della vita politica.
Pieni poteri
Sono solo alcuni esempi del fatto che il paese sta prendendo coscienza della minaccia rappresentata da un leader fuori controllo. Fino a dove si spingerà Trump? Ha evocato pubblicamente la possibilità di far ricorso a una “legge antinsurrezione” del 1807 che gli permetterebbe di schierare le forze armate sul territorio statunitense aggirando il parere dei tribunali.
Ad alimentare l’inquietudine è arrivata anche una strana dichiarazione di Stephen Miller, vice capo di gabinetto della Casa Bianca, che a 39 anni è diventato uno dei punti di riferimento ideologici della presidenza Trump. Ai microfoni della Cnn, Miller ha dichiarato che il presidente dispone di pieni poteri – plenary authority, in inglese – ma all’improvviso si è interrotto senza finire la frase e terminando l’intervista. Alcuni commentatori hanno ipotizzato che Miller si sia accorto di aver detto troppo. Il video è diventato virale.
In realtà Trump non ha affatto “pieni poteri”, ma di sicuro vorrebbe averli. L’esternazione di Miller potrebbe anticipare uno sviluppo in questo senso, che lascerebbe il presidente libero dai vincoli dei tribunali e del congresso e gli permetterebbe perfino di rinviare le scadenze elettorali.
È una paura eccessiva? Un libro appena pubblicato la alimenta. In The mission, Tim Weiner racconta l’attività della Cia nel ventunesimo secolo e i rapporti tra il potere politico e le forze di sicurezza negli Stati Uniti. E mostra in che modo una leadership incompetente o malintenzionata può scatenare una catastrofe mondiale, come successe con l’Iraq.
Weiner cita le parole di un ex funzionario della Cia a proposito della prima amministrazione Trump: “L’esistenza della nazione è a rischio quando il decisore politico altera il ruolo dei servizi d’intelligence”. Una frase che si applica chiaramente al periodo attuale.
Quando Trump dichiara agli ufficiali che le città statunitensi saranno un terreno di addestramento, sarebbe un errore non prenderlo sul serio.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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