“Ci sono voluti tremila anni per arrivare a questo momento, vi rendete conto?”. Come un atleta che fa un giro trionfale per salutare la folla ancora prima della fine della gara, il 13 ottobre Donald Trump ha fatto il pieno di applausi. Da Gerusalemme a Sharm el Sheikh, il presidente degli Stati Uniti aveva motivi legittimi di esultanza. La liberazione degli ultimi venti ostaggi israeliani vivi nelle mani di Hamas nella Striscia di Gaza rappresenta un successo fino a poco tempo fa inimmaginabile. Solo lui poteva ottenerlo. Ma certo non senza aiuto.

Questo successo conferma un approccio non convenzionale alla diplomazia. Per Trump tutto si riduce a una questione di relazioni personali e rapporti di forza. La storia è un ingombro. In nessuna circostanza Trump ha preteso di mettere israeliani e palestinesi su un piano di uguaglianza nel conflitto, dal momento che non lo sono e che questo metodo è fallito per decenni. Ha deciso di ignorare i diritti politici dei palestinesi, come nel suo piano di pace del 2020, scegliendo di concentrarsi su un obiettivo immediato – la liberazione degli ostaggi israeliani – e su considerazioni economiche. Il miliardario vede i paesi del Golfo come una cassaforte inesauribile. A questi promette, con il loro denaro e con l’appoggio degli Stati Uniti, una “nuova alba” per il Medio Oriente e la “pace eterna”.

Solo con la sua parola, Trump trasforma in una soluzione totale e definitiva il fatto che Hamas abbia accettato la prima fase del suo piano. Ritiene che la guerra sia finita, cosa che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non conferma altrettanto chiaramente, e relega nella sezione “logistica e contingenze” tutti i punti in sospeso. “La ricostruzione sarà forse la parte più facile”, ha detto Trump il 13 ottobre. Neanche per sogno. Da anni l’Egitto non riesce a far riavvicinare le fazioni palestinesi. Neta­nyahu esclude qualsiasi ritorno dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza. Chi si occuperà quindi della gestione dell’enclave? Chi ne garantirà la sicurezza, se sarà confermato il ritiro israeliano?

Trump ha confermato che Washington ha autorizzato Hamas “per un periodo limitato” a combattere la criminalità organizzata tra le macerie di Gaza. Un gesto trasgressivo carico di conseguenze, che apre la strada a esecuzioni sommarie e a una caccia a chi ha collaborato con Israele. La Casa Bianca non aveva esitato a negoziare direttamente con Hamas per la liberazione dell’ostaggio statunitense Edan Alexander a maggio. Secondo il sito d’informazione Axios, per ottenere la liberazione degli ultimi venti ostaggi l’inviato speciale Steve Witkoff e il genero del presidente Jared Kushner avrebbero avuto un incontro decisivo in Egitto l’8 ottobre con il capo della delegazione di Hamas, Khalil al Hayya.

Phil Gordon, ex consigliere diplomatico della vicepresidente Kamala Harris ed esperto della Brookings institution, ammette che ci sono “vantaggi nella volontà di Trump di fare le cose in modo diverso, come parlare direttamente con Hamas e scavalcare Netanyahu per considerare come un ‘sì’ un consenso parziale del movimento islamista, anche se il gruppo non ha accettato il piano nella sua integrità. Trump è aiutato dal controllo sul suo partito e sulla politica interna statunitense. Può cavarsela facendo cose che i leader democratici, come l’ex presidente Joe Biden, non avrebbero potuto permettersi”. Per Gordon, tuttavia, l’amministrazione Trump potrebbe sopravvalutare “la volontà di Hamas di disarmarsi e quella dei paesi arabi di fornire forze di sicurezza”.

Questo successo degli Stati Uniti non può far dimenticare gli otto mesi precedenti, dopo il ritorno di Trump al potere. Il presidente ha approvato le azioni militari israeliane a Gaza. Ha offerto un orizzonte politico all’estrema destra suprematista ebraica, proponendo il miraggio di una Gaza trasformata in riviera e di un’evacuazione della popolazione palestinese verso i paesi arabi vicini, che hanno rifiutato. Washington ha impiegato mesi a ricalibrare il suo approccio.

Scambio di favori

I bombardamenti statunitensi contro tre siti nucleari iraniani a giugno hanno cambiato le carte a favore di Israele. Il regime di Teheran è apparso così debole da portare alla chiusura di un capitolo: quello delle minacce esistenziali che pesavano sullo stato ebraico, dopo l’annientamento di Hezbollah in Libano. Restava da mettere fine alla guerra a Gaza. La Casa Bianca ha saputo sfruttare due circostanze nuove: un’iniziativa e un fallimento. L’iniziativa, diplomatica, è stata guidata da Arabia Saudita e Francia a favore del riconoscimento della Palestina. L’amministrazione Trump ne ha rifiutato la conclusione, ma non l’ha ostacolata. Questa mobilitazione ha mostrato l’isolamento di Israele, che il presidente statunitense non ha mancato di invocare nei suoi scambi con Netanyahu. Ha anche offerto a un’amministrazione superficiale in termini operativi proposte, formule e ipotesi di lavoro.

L’altra svolta è stata un fallimento, quello dell’attacco israeliano del 9 settembre contro i leader di Hamas a Doha. Il bombardamento ha provocato un profondo shock nella regione, dove l’impudenza militare di Tel Aviv è apparsa come una dimostrazione di arroganza e una fonte di destabilizzazione. Gli Stati Uniti hanno ricevuto un messaggio chiaro: gli accordi di Abramo – il processo di normalizzazione tra i paesi arabi e Israele – sarebbero stati in pericolo se Washington non avesse riportato il suo alleato alla ragione. Gli Stati Uniti hanno preso atto di questa situazione di crisi. La priorità è stata blandire il Qatar. Durante la sua visita alla Casa Bianca, Netanyahu è stato costretto a scusarsi con l’emirato. Ma il premier israeliano è stato ripagato, in uno scambio di favori tipico del presidente statunitense. Davanti alla knesset, il parlamento israeliano, il 13 ottobre Trump ha lodato il suo coraggio e ha invocato una grazia presidenziale per sottrarlo ai suoi guai giudiziari. Così si sarebbe concluso uno “sprint finale”, secondo il miliardario, lanciato tre settimane prima a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. L’aggettivo “finale” indica impazienza, mentre tutti gli interessati prevedono un necessario sforzo di lungo periodo. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1636 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati