All’inizio di ottobre alcuni musicisti indipendenti di Oakland, in California, si sono riuniti per partecipare a una serie d’incontri intitolata Death to Spotify, in cui hanno parlato di come “decentralizzare la diffusione, la produzione e l’ascolto della musica all’interno delle economie capitaliste”.
Gli eventi, organizzati nella biblioteca Bathers, hanno coinvolto professionisti della stazione radio indipendente Kexp, delle etichette Cherub Dream e Dandy Boy e dei collettivi di dj No Dias e Amor Digital. Quello che era cominciato come un piccolo ciclo di conferenze ha fatto rapidamente registrare il tutto esaurito, attirando l’interesse internazionale. In città lontane migliaia di chilometri dalla California, da Barcellona a Bengaluru, gli organizzatori hanno ricevuto tante richieste di suggerimenti per organizzare eventi simili.
Passivi e apatici
Death to Spotify coincide con la crescita esponenziale del movimento che combatte la piattaforma di streaming svedese. A gennaio la giornalista musicale Liz Pelly ha pubblicato Mood machine, una storia critica in cui sostiene che Spotify ha rovinato l’industria musicale e trasformato gli ascoltatori in “consumatori passivi e apatici”. Secondo Pelly il modello di Spotify si basa su compensi ridicoli versati agli artisti, che si riducono ulteriormente quando i musicisti accettano di essere “playlistati” nella modalità Discovery, che premia un genere di musica tenue, ideale come sottofondo nei locali pubblici e nei caffè.
Da tempo gli artisti si lamentano degli introiti insufficienti derivati dalla pubblicazione del loro catalogo su Spotify, ma la scorsa estate le critiche verso l’azienda sono diventate personali e hanno preso di mira uno dei fondatori, Daniel Ek, per la sua decisione d’investire in Helsing, azienda tedesca che produce software di intelligenza artificiale destinati all’industria militare. In segno di protesta band come Massive Attack, King Gizzard & the Lizard Wizard, Deerhoof e Hotline TNT hanno ritirato la loro musica dalla piattaforma, che da parte sua dichiara che “Spotify e Helsing sono due imprese distinte”.
A Oakland, Stephanie Dukich è stata ispirata dalla lettura di Mood machine e dai boicottaggi. Nella vita di tutti i giorni Dukich si occupa di esaminare le denunce contro la polizia di Oakland e aveva partecipato a un gruppo di lettura sui media digitali nella biblioteca Bathers. Anche se non è una musicista, si considera “un’appassionata di suono”, come la sua amica Manasa Karthikeyan, che lavora in una galleria d’arte.
Dukich e Karthikeyan hanno deciso di avviare un dibattito sul tema delle piattaforme di streaming. “Spotify ha un impatto enorme sul modo in cui ascoltiamo la musica”, spiega Dukich. “Abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea discutere il nostro rapporto con lo streaming e affrontarne i problemi”. È così che è nato Death to Spotify.
L’obiettivo dell’iniziativa, in sostanza, è di “combattere l’ascolto algoritmico, il furto di diritti d’autore e la musica generata dall’intelligenza artificiale”. Karthikeyan sottolinea che la responsabilità di lasciare Spotify non è solo degli artisti, ma anche degli utenti. “Bisogna accettare di non poter avere un accesso istantaneo a qualsiasi brano”, spiega. “Così si pensa di più alle conseguenze delle proprie scelte, a cosa si decide di sostenere”.
Davvero i musicisti e gli utenti avranno la forza di boicottare l’applicazione? In passato vari artisti di fama mondiale hanno rimosso le loro canzoni con annunci clamorosi, ma spesso sono silenziosamente rientrati nei ranghi nel giro di poco tempo. Taylor Swift, una delle cantanti più popolari sulla piattaforma, aveva boicottato il servizio per tre anni per protestare contro il sistema di retribuzione inadeguato, ma ha fatto marcia indietro nel 2017. Per lo stesso motivo, nel 2013 Thom Yorke dei Radiohead aveva tolto alcuni suoi progetti dalla piattaforma, definendola “l’ultima scorreggia disperata di un corpo moribondo”. Poi è tornato sui suoi passi.
Neil Young e Joni Mitchell (che negli anni cinquanta, da bambini, avevano contratto la poliomielite) avevano lasciato Spotify nel 2022, citando come motivazione l’esclusiva tra la piattaforma e l’autore di podcast antivax Joe Rogan. Ma in seguito anche le due star canadesi hanno cambiato idea.
Energia diversa
Eric Drott, professore di musica all’università del Texas di Austin, sottolinea che l’ultima ondata di boicottaggi sembra avere un’energia diversa. “Si tratta di gruppi e artisti meno famosi. Per anni i musicisti hanno pensato che lo streaming fosse indispensabile per ottenere visibilità, anche se non li avrebbe mai fatti diventare ricchi. Ora, però, in giro c’è talmente tanta musica che molti non ottengono alcun beneficio”.
Will Anderson, frontman degli Hotline TNT, spiega che le possibilità di un ritorno del suo gruppo su Spotify sono dello “zero per cento”. Gli Hotline TNT hanno presentato il nuovo album Raspberry moon direttamente su Bandcamp, organizzando una diretta di 24 ore su Twitch, vendendo centinaia di copie e “incassando migliaia di dollari”.
Anche altri artisti stanno sperimentando nuove soluzioni. La cantautrice Caroline Rose ha commercializzato il suo album Year of the slug solo su vinile e su Bandcamp. Si è ispirata a Diamond jubilee di Cindy Lee, che inizialmente era disponibile solo su YouTube e sul sito di condivisione Mega.
Rose fa parte dell’Unione dei musicisti e dei dipendenti del settore musicale (Umaw), organizzazione creata all’inizio della pandemia di covid-19. Joey La Neve DeFrancesco, del gruppo punk Downtown Boys e cofondatore dell’Umaw, spiega che l’organizzazione “sostiene gli artisti che difendono le proprie opere, vigila sull’operato delle grandi aziende e prende iniziative per contrastare quelle come Spotify”. E ci tiene a sottolineare che il boicottaggio individuale “ha diversi limiti: agire collettivamente è fondamentale”.
Tra gli esempi di questo approccio c’è la campagna condotta dall’Umaw insieme alla Austin for Palestine coalition per convincere gli organizzatori del festival South by Southwest a eliminare i produttori di armi e l’esercito statunitense dagli sponsor dell’edizione del 2025.
Gli organizzatori di Death to Spotify spiegano che l’obiettivo non è per forza quello di chiudere l’app. “Vogliamo solo che tutti pensino un po’ di più al modo in cui ascoltano la musica”, precisa Karthikeyan. “Se ci adagiamo in questa zona di comfort costruita intorno a un algoritmo, il risultato sarà un appiattimento della cultura”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1636 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati