Beirut possiede la straordinaria capacità di rinascere dopo ogni crisi, con una sete di vita che supera qualsiasi ostacolo. Le guerre però hanno caratterizzato la storia del Libano, dal conflitto civile di cui ricorre il cinquantesimo anniversario fino ai bombardamenti israeliani, che nel centro della capitale sembrano quasi invisibili.
Dopo l’attacco di Hamas contro Israele nell’ottobre 2023 la regione è sprofondata in uno stato di guerra senza fine e senza soluzioni. Il conflitto prosegue nella Striscia di Gaza, teatro di un massacro impietoso e di una punizione collettiva inflitta a due milioni di civili palestinesi. E ogni giorno causa una nuova tragedia: un residente in una colonia ebraica è stato ucciso in un attentato, spingendo un ministro israeliano a chiedere di radere al suolo quello che ha chiamato “il nido del terrore” in Cisgiordania. Esattamente quello che Tel Aviv sta facendo a Gaza, per ammissione dello stesso ministro.
Il 7 ottobre di due anni fa ha aperto le porte dell’inferno nella regione, con diverse guerre parallele d’intensità variabile. E dal conflitto sta emergendo una nuova situazione, ma sullo sfondo restano i soliti problemi di sempre.
Israele ha incontestabilmente imposto la sua forza militare. In Libano Hezbollah ne ha pagato il duro prezzo, nonostante la milizia sciita vantasse la propria forza. La macchina da guerra di Tel Aviv avanza ovunque.
E ha evidentemente la capacità di prevalere. Come mi ha spiegato un importante esperto libanese di questioni internazionali, però, non ha un progetto politico adeguato per sostenere questa egemonia. Lo stato ebraico è ha bisogno di una guerra permanente: è in questo modo che buona parte del mondo arabo (e non solo) considera l’ingombrante vicino.
Questa è la grande debolezza di Benjamin Netanyahu da quando ha lanciato la sua offensiva a Gaza, che inizialmente appariva come un’operazione di legittima difesa.
Il governo israeliano non ha nulla da proporre ai palestinesi e rifiuta ogni progetto presentato dai paesi arabi o dagli europei, che vorrebbero la fine delle ostilità e l’avvio di una fase politica.
È il paradosso del momento: da un lato la guerra a oltranza che vediamo a Gaza, dall’altro un’aria di prosperità e ricchezza nel Golfo, sul versante opposto del mondo arabo. Donald Trump ha dimostrato nel corso della sua visita di aver scelto da che parte stare e di aver sposato il sogno di prosperità dei principi del Golfo, cercando nel frattempo di ottenere un deal, un accordo, con l’Iran.
Un tempo i paesi del Golfo consideravano Israele come un polo di sicurezza e tecnologia. Gli Emirati Arabi Uniti hanno riconosciuto Israele, mentre l’Arabia Saudita era sul punto di farlo alla vigilia del 7 ottobre. Ora questo processo si è fermato e sembra incompatibile con il supplizio inflitto ai gazawi, anche se resta il fatto che nessun paese arabo ha rotto i rapporti che aveva stabilito in precedenza con Tel Aviv.
La soluzione a questa crisi permanente si trova senza dubbio nello stato ebraico, perché solo all’interno della principale potenza militare della regione si può decidere un’inversione di rotta.
I dibattiti all’interno della società israeliana sono accesi, anche se a Beirut nessuno si aspetta un’evoluzione rapida. La regione, ormai, convive con la guerra da così tanto tempo che non crede più ai miracoli, ma si limita a sopravvivere.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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