Due giorni nella vita di due persone innamorate. Il primo, quando tutto comincia, e l’ultimo, quando ci si lascia. A chi legge, la possibilità di immaginare cosa è successo in mezzo. In questa puntata: Arthur, 31 anni.

Il primo giorno

“Entro in ospedale psichiatrico il 31 dicembre. Già da qualche giorno ho dei problemi. Vedo ovunque segni, coincidenze che secondo me non sono casuali. Ho l’impressione di vivere in una caccia al tesoro e che la gente mi parli attraverso dei sottintesi. Sono nel pieno di un delirio megalomane, seguo solo il mio istinto, come in quei libri in cui sei un eroe. Studente in medicina, cerco di andare a studiare in biblioteca, ma passo le giornate in uno stato di agitazione, a vagabondare al volante della mia auto. Di ritorno in biblioteca mi nascondo per fumare nelle sale di lettura e finisco per essere scoperto da una grossa guardia della sicurezza. La insulto, lei chiama la polizia. Arrivano, li provoco ancora di più. Mi ammanettano a un termosifone del commissariato, grido più forte che posso, finché non mi trasferiscono al pronto soccorso dove mi immobilizzano, mi sedano, mi legano.

Il mio arrivo in ospedale dopo questo episodio è un sollievo. Esco da un incubo delirante. Fa molto freddo, ho quasi i geloni alle dita. Siamo sparpagliati in piccoli padiglioni, davanti ai quali passiamo ore a fumare. È l’ultimo dell’anno, ma ho perso la cognizione del tempo. All’ora della distribuzione dei farmaci, ci mettiamo in fila davanti a un carrello con sopra dei bicchierini di plastica pieni di pillole di tutti i colori – le nostre medicine. In fila vedo una ragazza bruna, molto alta, bellissima, con i lineamenti un po’ egiziani. Ha i capelli lunghi sotto un colbacco, occhiali squadrati e stivali imbottiti. Più tardi scoprirò che in realtà porta una parrucca: si era rasata la testa in un momento di panico.

Ci accompagnano poi nel refettorio dell’ospedale, dove assistiamo a una scena degna del libro Il grande Meaulnes: persone con sembianze adulte ma comportamenti da bambini. Tutti gli schizofrenici, i depressi e quelli con disturbi maniacali urlano ‘evviva, è festa!’ mentre mangiano del foie gras. Esausto dopo il mio primo giorno, chiedo di tornare in stanza.

Gioco a carte con un tipo che somiglia a Bob Marley, accanto c’è un altro che parla con Joy, il suo amico immaginario al quale è collegato tramite un chip, e Félicie, una fan sfegatata del compositore Maurice Ravel, che entra sempre nella stanza sbattendo i piedi e urlando: ‘Voglio ascoltare Maurice Ravel!’. Poi si unisce a noi la ragazza bruna e molto bella, si chiama Flore… Il mio delirio sembra calmarsi, sono semplicemente un po’ su di giri, eccitato, spiritoso… La faccio ridere, siamo complici. Dopo le carte mi invita nella sua stanza, anche se in teoria non si potrebbe.

La prendo in giro per il suo colbacco, i suoi occhi brillano, la bacio. Lei è piuttosto borderline, con disturbi dell’attaccamento, io in piena euforia maniacale. Lei ha 18 anni e ha un ragazzo che gestisce un fast food. Mi innamoro subito, mi costruisco un piccolo mondo composto da lei e dagli amici dell’ospedale con cui gioco a carte.

Stare con lei non mi fa sempre bene. A causa della mia condizione ho bisogno di dormire, ma non dormo mai perché chiacchieriamo e ridiamo insieme tutta la notte. Ho un altro attacco di panico. Ma siamo anche felici insieme: passiamo ore nel parco ad ascoltare musica con il mio telefono, a dirci, come degli adolescenti, che ‘quello che non ci uccide, ci rende più forti’, che siamo noi due contro il resto del mondo e che ne usciremo insieme”.

L’ultimo giorno

“Alla lunga l’ospedale può essere iatrogeno: può farti stare peggio di prima. Su consiglio dei miei genitori mi rado, mi metto una camicia per convincere lo psichiatra a lasciarmi andare. Uscire dall’ospedale psichiatrico è come uscire di prigione: tutti sono contenti per te, ti organizzano una festa d’addio con succo di frutta. Con Flore siamo convinti che resteremo insieme.

Riprendo la mia vita ‘normale’, una sera vado a una festa. Qui spiego a un’amica, divertito, che ho una nuova ragazza, conosciuta in ospedale. Lei mi dice di fare attenzione, che Flore potrebbe essere un po’ disorientata, instabile, che forse non è quello di cui ho bisogno per stare meglio. Le sue osservazioni mi fanno venire i primi dubbi.

Alla fine Flore esce. Vado a prenderla all’ospedale con la mia Citroën Saxo, l’aiuto a traslocare tutta la sua vita, non più di qualche borsa di vestiti. Ha trovato un posto in un centro per giovani lavoratori. Sono molto contento per lei, ora potrà cominciare una nuova vita. Già adesso la nostra relazione è meno intensa, ci baciamo in modo più tranquillo.

Ma ai piedi di quell’edificio freddo e senz’anima, con la mia auto parcheggiata in doppia fila, la realtà mi colpisce in pieno. Il suo nuovo alloggio è minuscolo e sporco, non riesco a vedermi lì, non mi vedo a dormire nel suo letto, non la immagino nella mia vita. La lascio, tutta contenta, e la bacio appassionatamente. Sarà il nostro ultimo bacio.

Una settimana dopo ci scambiamo qualche messaggio: la nostra relazione è finita, senza drammi. Flore ha sposato poi il gestore del fast food. E ricordo questa storia con grande orgoglio: essere riusciti a creare uno spazio di libertà, di trasgressione nell’universo mortifero dell’ospedale. Di aver umanizzato tutti quei reparti freddi e psicotici con i nostri abbracci. Flore ha fatto parte della mia crisi, di quella colonia estiva che è stato l’ospedale psichiatrico, dove ci si nascondeva dagli infermieri per fare quello che volevamo. A vent’anni la mia preoccupazione era soprattutto di incontrare il maggior numero possibile di ragazze nelle circostanze più piacevoli possibili – e quella volta così è stato”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Amore che vieni, amore che vai è una serie del quotidiano francese Le Monde che racconta il primo e l’ultimo giorno di una storia d’amore. Qui ci sono tutte le puntate.

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