È stata una settimana difficile per la democrazia in Africa. Si è votato in tre grandi paesi – Camerun, Costa d’Avorio e Tanzania – ma in nessun caso le elezioni sembrano essere state libere e regolari.
In Camerun l’annuncio dell’ennesima vittoria del presidente novantaduenne Paul Biya, al potere da 43 anni, ha esasperato una parte della popolazione, che è scesa in piazza a protestare in varie città scontrandosi con la polizia. Secondo l’ong Human rights watch le persone uccise, presumibilmente dalle forze di sicurezza, sono quattro, decine i feriti e centinaia gli arrestati. Biya, al potere dal 1982, è il più anziano capo di stato del mondo e solo il secondo presidente del Camerun dai tempi dell’indipendenza nel 1960.
In Costa d’Avorio il 26 ottobre il presidente Alassane Ouattara, 83 anni, è stato rieletto per un quarto mandato con l’89,77 per cento dei voti, in uno scrutinio da cui erano stati esclusi i suoi due principali avversari: l’ex banchiere Tidjane Thiam e l’ex presidente Laurent Gbagbo. L’affluenza alle urne è stata solo del 50 per cento, a testimonianza della disaffezione degli elettori di fronte a uno scrutinio percepito come già deciso in anticipo. “A vincere senza rischi, si trionfa senza gloria”, ha commentato il quotidiano burkinabé Le Pays, parlando di un’elezione che si è ridotta a una “formalità amministrativa per ricondurre al potere Ouattara”.
Il 29 ottobre, il giorno delle presidenziali in Tanzania, centinaia di persone sono scese in piazza per denunciare le sparizioni forzate e gli arresti dei politici dell’opposizione, sfidando la repressione della polizia. La Reuters ha ricevuto notizia di almeno cinque morti. Le proteste sono proseguite anche il giorno dopo, per criticare il tentativo della presidente Samia Suluhu Hassan di spianare la strada alla sua rielezione: il suo principale avversario, Tundu Lissu, è attualmente sotto processo per tradimento, un’accusa punibile con la pena di morte; il partito di Lissu, Chadema, è stato messo al bando. Come nota il Financial Times, sono decine le persone che hanno criticato apertamente Suluhu Hassan e il suo partito Chama Cha Mapinduzi (Ccm, al potere dall’indipendenza nel 1961) e ora sono state costrette all’esilio o sono sparite per mano dei servizi di sicurezza dello stato, come denunciano i gruppi in difesa dei diritti umani.
Queste situazioni riflettono un sentimento che sembra diffondersi in tutta l’Africa subsahariana, dove secondo un sondaggio di Afrobarometer, solo il 39 per cento degli intervistati dice di aver fiducia nelle commissioni elettorali dei loro paesi, che spesso non si dimostrano indipendenti dal potere. La commissione elettorale del Camerun, per esempio, ha escluso dalla corsa presidenziale l’oppositore più temibile di Biya, Maurice Kamto; quella della Costa d’Avorio ha fatto lo stesso con Thiam e Gbagbo; quella tanzaniana ha impedito la partecipazione di Chadema perché non aveva sottoscritto un codice di condotta.
Solo una facciata
Le elezioni vengono quindi svuotate del loro significato di esercizio democratico per essere usate come strumento di affermazione di un potere già consolidato. Allo stesso tempo ci sono governi africani, come i regimi golpisti del Sahel, che attaccano la democrazia perché la considerano un’importazione coloniale, un sistema di governo non autenticamente africano.
Come ricorda il giornalista di Le Monde Philippe Bernard, il nuovo uomo forte della Guinea, Mamadi Doumbouya, si è lamentato alle Nazioni Unite del fatto che “l’Africa soffre per un modello di governo che gli è stato imposto… e che non funziona”. Di recente, quattro anni dopo aver preso il potere con la forza, ha fatto approvare un referendum che gli permetterà di presentarsi alle presidenziali.
Se da un lato i regimi militari andati al potere dal Mali al Niger mettono in luce il fallimento dei precedenti governi appoggiati dalla Francia, che ha tollerato a lungo la corruzione e il clientelismo dietro la facciata delle elezioni, “la fossilizzazione di elezioni svuotate di senso alimenta il rifiuto della democrazia tra le nuove generazioni”, scrive Bernard. Prova ne è che, secondo un altro sondaggio di Afrobarometer, solo il 63 per cento degli elettori con meno di 35 anni ha partecipato alle ultime elezioni nel suo paese, contro l’81 per cento della fascia d’età 35-39 anni. Oggi in molti paesi gli stessi giovani stanno portando in piazza il loro dissenso e le loro recriminazioni verso il potere, in quelle che sono state etichettate come le proteste della generazione zeta (i nati tra il 1997 e il 2012).
In un’intervista a Jeune Afrique il giornalista senegalese Ousmane Ndiaye – autore di L’Afrique contre la démocratie: mythes, déni et péril, uscito in Francia per la casa editrice Riveneuve, in una collana diretta dallo scrittore senegalese Elgas – riflette su questi temi e individua il Camerun come l’esempio principe delle “finzioni democratiche” africane. Negli anni novanta, ricorda Ndiaye, c’è stata un’ondata di apertura al multipartitismo e al pluralismo, ma spesso i vecchi regimi hanno semplicemente saputo riadattarsi a nuove norme, diventando democratici solo di nome. In Camerun, nota Ndiaye, ci sono state otto elezioni ma il potere è sempre rimasto nelle mani di un solo uomo, Biya, che ha finito per impersonarlo. E anche se il sistema di governo ha la parvenza di una democrazia (ci sono un parlamento bicamerale e una commissione elettorale) nei fatti funziona come una dittatura.
Ndiaye è molto critico anche verso i cosiddetti “oppositori storici”, che una volta arrivati al potere finiscono per ripetere gli stessi errori dei loro avversari. Cita una generazione che si è battuta per tutti gli anni ottanta e novanta per il multipartitismo e per la libertà della stampa, per elezioni libere e indipendenti, ma che poi ha finito per mandare a monte il progetto democratico: Alpha Condé in Guinea, Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio, Abdoulaye Wade in Senegal… Secondo Ndiaye, il loro esempio ha minato alla base l’idea di democrazia. Il giornalista trova una spiegazione di questa stortura con il fatto che spesso anche i partiti d’opposizione sono incentrati su una sola persona e al loro interno manca una pratica democratica consolidata, cosa che si riflette successivamente nella gestione del potere.
Oggi l’attacco diretto alla democrazia nei paesi golpisti dell’Africa francofona è diventato uno dei punti chiave della loro propaganda, veicolata da alcuni influencer – uno dei più famosi è Kémi Séba – in particolare quando affermano che gli africani non sarebbero fatti per la democrazia che, in fin dei conti, è solo una “trappola dell’imperialismo”. Ma dimenticano, sottolinea Ndiaye, che la democrazia non è altro che l’aspirazione a una vita dignitosa. Per sconfiggere questi preconcetti, sostiene, bisogna guardare indietro e riscoprire le esperienze democratiche africane del passato: accanto agli imperi e ai dittatori ci sono sempre stati popoli che hanno cercato di vivere in libertà, scegliendo autonomamente i propri leader. Semmai, nota, la colonizzazione è stata un punto di rottura nei processi endogeni di democratizzazione dell’Africa. La democrazia infatti non può coesistere in nessun caso con la colonizzazione.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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