Come possiamo analizzare le nuove tensioni commerciali che stanno colpendo il mondo? Per capire meglio la posta in gioco, il Laboratorio sulle disuguaglianze mondiali ha pubblicato uno studio sugli squilibri commerciali globali dal 1800, intitolato “Scambi disuguali e relazioni nord-sud. I dati sui flussi commerciali globali e la bilancia dei pagamenti mondiale dal 1800 al 2025”. Le conclusioni dell’analisi sono chiare: l’idea di un libero scambio equilibrato non regge alla prova dei fatti. A partire dal 1800 ci sono sempre stati squilibri e le potenze dominanti hanno abusato del proprio potere per imporre condizioni di scambio a proprio vantaggio, a scapito dei paesi poveri. La novità della crisi attuale risiede nel fatto che gli Stati Uniti non hanno più il controllo del mondo e si trovano in una situazione di fragilità finanziaria senza precedenti. Questo spiega l’aggressività dell’amministrazione trumpiana. Cedere ai ricatti, come hanno fatto gli europei sulle spese militari o sulla tassazione delle multinazionali, è la strategia peggiore: è tempo che l’Europa smetta di essere debole e si allei con le democrazie del sud del mondo per rifondare il sistema commerciale e finanziario.

Ricordiamo innanzitutto che la dimensione dei flussi commerciali non è mai stata così grande. Il totale delle esportazioni (e delle importazioni) oggi ammonta a circa il 30 per cento del prodotto interno lordo (pil) mondiale, con il 7 per cento rappresentato da materie prime, il 16 per cento da beni manifatturieri e il 7 per cento da servizi (turismo, trasporti). Nel 1800 i flussi commerciali si attestavano intorno al 7 per cento del pil mondiale e nel 1970 al 12 per cento. A partire dal 1970 c’è stato un aumento vertiginoso in tutti i settori, con conseguenze materiali e danni ambientali di cui solo ora cominciamo a prendere coscienza. Spesso si fa notare che il commercio mondiale si è stabilizzato in termini di percentuale del pil mondiale dopo la crisi del 2008. È vero, ma si tratta del livello più alto mai osservato.

Oggi gli Stati Uniti hanno un debito estero senza precedenti. È questa l’origine del nervosismo dei trumpiani e dei loro tentativi disperati di estrarre ricchezze dal resto del mondo

Veniamo agli squilibri. Gli Stati Uniti tra il 1990 e il 2025 hanno registrato in media un deficit commerciale annuo (importano più di quanto esportano) pari al 3-4 per cento del loro pil. Le eccedenze nei servizi non bastano neanche lontanamente a compensare l’enorme deficit manifatturiero. Come può la potenza dominante essere sempre in deficit commerciale? In realtà, storicamente è stata la norma. Tra il 1800 e il 1914 le potenze europee, a partire dal Regno Unito, furono in permanente disavanzo commerciale. Le eccedenze di beni manifatturieri e merci erano nettamente inferiori agli immensi flussi di materie prime a basso costo provenienti dal resto del mondo (cotone, legname, zucchero). Tra il 1880 e il 1914 le principali potenze del vecchio continente (Regno Unito, Francia e Germania) ebbero un deficit commerciale medio annuo paragonabile a quello degli Stati Uniti tra il 1990 e il 2025. Le potenze europee, però, all’epoca ricavavano entrate gigantesche dai possedimenti coloniali. E questo gli permetteva di finanziare il deficit commerciale continuando ad accumulare debiti nel pianeta.

Al contrario, le attività estere degli Stati Uniti non hanno mai generato entrate sufficienti a compensare il disavanzo, al punto che il paese oggi ha un debito estero senza precedenti. Alla lunga Washington potrebbe ritrovarsi a dover versare interessi consistenti al resto del mondo, una cosa mai vista nella storia. È questa l’origine del nervosismo dei trumpiani e dei loro tentativi disperati di estrarre ricchezze dal resto del mondo. L’argomento usato per giustificare queste estorsioni è che Washington fornisce gratuitamente un bene pubblico globale: una moneta stabile e un sistema finanziario solido. Il resto del mondo accumula patrimoni in dollari – debito pubblico e titoli di borsa – e questo fa salire il valore della moneta e alimenta il deficit commerciale statunitense. In realtà il dollaro ha già fruttato agli Stati Uniti più di quanto doveva.

L’argomentazione merita comunque una riflessione, perché potrebbe portare a soluzioni diverse da quelle dei trumpiani. In pratica, i surplus dei decenni passati dei paesi produttori di petrolio si spiegano con il fatto che negli anni settanta sono riusciti a triplicare i prezzi, e che il mondo ha continuato a consumare le energie fossili. I surplus industriali di Cina, Giappone o Germania si giustificano in parte per via dei salari troppo bassi e in parte con la scelta di accumulare riserve all’estero, alimentata da una percezione di fragilità del sistema finanziario internazionale e dall’assenza di un patrimonio di riserva mondiale.

Di fronte agli squilibri mondiali la risposta giusta sarebbe l’istituzione di una moneta comune indicizzata alle principali valute, che permetta di sottrarsi alla dipendenza dal dollaro e di finanziare un modello di sviluppo più equilibrato. Speriamo che la brutalità trumpiana acceleri questa presa di coscienza. ◆ fdl

Questo articolo è uscito sul quotidiano Le Monde.

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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati