Questo articolo è stato pubblicato il 6 aprile 2018 nel numero 1250 di Internazionale.
Tutti i genitori ricordano il momento in cui hanno preso in braccio per la prima volta i loro figli: quel visino stropicciato, quella nuova persona che fa capolino dalla coperta dell’ospedale. Anch’io ricordo di aver allungato le mani e preso tra le braccia mia figlia. Ero così emozionato che riuscivo a malapena a pensare. Poi sono uscito per lasciare che la madre e la neonata riposassero un po’. Erano le tre di un mattino di fine febbraio nel New England. C’era ghiaccio sulla strada e cadeva una pioggerella gelida. Mentre scendevo dal marciapiede mi è venuto un pensiero: quando mia figlia avrà la mia età, sulla Terra ci saranno quasi dieci miliardi di persone. Mi sono fermato e mi sono chiesto: come faremo?
Nel 1970, quando ero alle superiori, una persona su quattro soffriva la fame, era “denutrita”, come preferiscono dire oggi le Nazioni Unite. Ora quel rapporto è sceso più o meno a una persona su dieci. Negli ultimi quarant’anni la vita media degli abitanti del pianeta si è allungata di più di undici anni, e questo aumento si è concentrato soprattutto nei paesi poveri. In Asia, America Latina e Africa centinaia di milioni di persone sono passate dalla povertà estrema a un tenore di vita da classe media. Questo arricchimento non è avvenuto in modo né uniforme né equo. Milioni di persone sono ancora povere. Tuttavia, un progresso simile non c’era mai stato prima.
Nessuno sa se continuerà né se riusciremo a mantenere questo livello di benessere. Oggi il mondo ha circa 7,6 miliardi di abitanti. La maggior parte dei demografi pensa che intorno al 2050 saranno dieci miliardi o poco meno. A quel punto probabilmente la popolazione comincerà a calare. La nostra specie sarà più o meno al “livello di sostituzione”: ogni coppia avrà in media un numero di figli appena sufficiente per prendere il suo posto. Nel frattempo, dicono gli economisti, lo sviluppo dovrebbe continuare, anche se in modo disomogeneo.
Questo significa che quando mia figlia avrà la mia età, buona parte dei dieci miliardi di abitanti della Terra apparterrà alla classe media.Come tutti i genitori, vorrei che da adulti i miei figli vivessero bene. Ma nel parcheggio dell’ospedale, all’improvviso mi è sembrato improbabile. Dieci miliardi di bocche da sfamare, ho pensato. Tre miliardi in più di appetiti da classe media. Come sarà possibile soddisfarli? Ma questa è solo una parte della domanda. La versione completa è: come potremo sfamarli tutti senza rendere inabitabile il pianeta?
Il mago e il profeta
Mentre i miei figli crescevano, ogni tanto ho approfittato del mio lavoro di giornalista per parlare di queste cose con esperti europei, asiatici e americani. Con l’accumularsi delle conversazioni, mi è sembrato che le risposte rientrassero in due grandi categorie, associate rispettivamente (almeno secondo me) a due persone, entrambe statunitensi e vissute nel ventesimo secolo. Si conoscevano a malapena e non si stimavano molto, ma sono stati gli anticipatori dei modelli che oggi tutte le istituzioni del mondo usano per comprendere i nostri dilemmi ambientali. Purtroppo, i loro modelli indicano due soluzioni radicalmente opposte al problema della sopravvivenza. Queste due persone sono William Vogt e Norman Borlaug.
Vogt, nato nel 1902, gettò le fondamenta del movimento ambientalista moderno. In particolare, fondò quello che la ricercatrice dell’Hampshire college Betsy Hartmann ha definito “l’ambientalismo apocalittico”: l’idea secondo cui, se non ridurrà drasticamente i consumi e non limiterà la sua popolazione, il genere umano distruggerà tutti gli ecosistemi. Nei suoi bestseller e nei suoi discorsi, Vogt sosteneva che il benessere non è il nostro maggiore successo, ma il nostro più grande problema. Se continueremo a prendere più di quello che la Terra può darci, diceva, l’inevitabile conseguenza sarà la devastazione globale. Il suo slogan era “Ridurre! Ridurre!”.
Borlaug, nato dodici anni dopo Vogt, è diventato l’emblema del “tecno-ottimismo”, l’opinione secondo cui la scienza e la tecnologia, se usate nel modo giusto, ci permetteranno di trovare la soluzione ai nostri problemi. È stato una delle figure più note di quel settore della ricerca che negli anni sessanta diede il via alla rivoluzione verde, la combinazione tra colture ad alto rendimento e tecniche agronomiche che ha permesso di aumentare la produzione di cereali in tutto il mondo, contribuendo a evitare decine di milioni di morti per denutrizione. Per Borlaug la ricchezza non era il problema, ma la soluzione. Solo diventando più ricca e sapiente l’umanità poteva produrre la scienza che avrebbe risolto i nostri problemi ambientali. Il suo grido di battaglia era “Innovare! Innovare!”.
Sia Vogt sia Borlaug erano convinti di stare usando le nuove conoscenze scientifiche per affrontare una crisi planetaria. Ma le somiglianze finiscono qui. Per Borlaug la soluzione ai nostri problemi era l’ingegno umano. Per esempio, era convinto che usando i metodi avanzati della rivoluzione verde per aumentare la resa per ettaro gli agricoltori avrebbero dovuto coltivare meno ettari, un’idea che oggi i conservatori definiscono “l’ipotesi Borlaug”. Vogt pensava esattamente il contrario. Secondo lui la soluzione era usare le nuove conoscenze per ridurre i consumi.
Invece di coltivare più cereali per produrre più carne, l’umanità avrebbe dovuto alleggerire il peso sugli ecosistemi mangiando “ai livelli più bassi della catena alimentare”. In questo Vogt si distingueva dal suo predecessore Robert Malthus, il quale come è noto aveva previsto che prima o poi le società umane sarebbero rimaste senza cibo perché avrebbero fatto sempre troppi figli. Spostando la questione, Vogt sosteneva che forse avremmo potuto produrre abbastanza da mangiare, ma a spese degli ecosistemi del pianeta.
Ho deciso di chiamare i sostenitori di queste due teorie “maghi” e “profeti”. I maghi, seguendo il modello di Borlaug, cercano soluzioni tecnologiche. I profeti, ispirandosi a Vogt, denunciano le conseguenze della nostra incuria. Borlaug e Vogt lavorarono nello stesso settore per anni, ma si ignorarono. S’incontrarono una volta sola, e non andarono d’accordo: subito dopo Vogt cercò di fermare le ricerche di Borlaug. Oggi sono morti entrambi, ma la disputa tra i loro discepoli è ancora più accesa. I maghi considerano l’enfasi dei profeti sulla riduzione dei consumi intellettualmente disonesta, incurante dei poveri e perfino razzista (perché la maggior parte degli affamati non è bianca).
La strada indicata da Vogt, dicono, porta alla regressione, alla meschinità, alla povertà, a un mondo in cui miliardi di persone vivono nella miseria nonostante i progressi scientifici che potrebbero liberarle dalla fame. Secondo i profeti, invece, la fede dei maghi nell’ingegnosità umana è irragionevole, ignorante, perfino motivata dall’avidità (rifiutarsi di forzare i limiti degli ecosistemi significa anche ridurre i profitti delle aziende). L’agricoltura industriale intensiva proposta da Borlaug, dicono i profeti, può funzionare a breve termine, ma alla lunga la resa dei conti con l’ambiente sarà ancora più dura. L’eccessivo consumo del suolo e dell’acqua porteranno a un collasso ambientale, che a sua volta provocherà sconvolgimenti sociali in tutto il mondo.
I maghi rispondono: questa è proprio la crisi umanitaria globale che stiamo cercando di evitare! Con l’intensificarsi delle accuse reciproche, i discorsi sull’ambiente sono diventati monologhi, in cui nessuna delle due parti è disposta a confrontarsi con l’altra. Il che andrebbe anche bene, se non stessero discutendo del futuro dei nostri figli.
Vogt entrò nella storia nel 1948 con la pubblicazione di Road to survival (La strada per la sopravvivenza), il primo libro apocalittico moderno, che esponeva la tesi alla base dell’attuale movimento ambientalista: quella della capacità portante. Spesso chiamata con altri nomi – teoria dei “limiti ecologici” o dei “confini planetari” – la tesi della capacità portante sostiene che ogni ecosistema può produrre fino a un certo limite. Se lo si supera per troppo tempo l’ecosistema viene distrutto.
Con il crescere della popolazione umana, sosteneva Vogt, il nostro bisogno di cibo supererà la capacità portante della Terra. I risultati saranno catastrofici: erosione, desertificazione, esaurimento del suolo, estinzione delle specie e contaminazione dell’acqua che, prima o poi, provocheranno enormi carestie. Abbracciata anche da scrittori come Rachel Carson (autrice di Primavera silenziosa e amica di Vogt) e Paul Ehrlich (autore di The population bomb), questa tesi sul superamento dei limiti ha dato origine all’attuale movimento ambientalista mondiale, l’unica ideologia sopravvissuta alla fine del novecento.
Il miracolo del grano
Quando uscì Road to survival, Borlaug era un giovane fitopatologo che lavorava a un programma per migliorare l’agricoltura messicana. Sponsorizzato dalla fondazione Rockefeller, il progetto mirava soprattutto ad aiutare i poveri coltivatori di granturco del paese. Borlaug era in Messico per un piccolo progetto secondario che riguardava il grano, o meglio la cosiddetta ruggine del grano, un fungo che è il suo più antico e peggior nemico (i romani celebravano sacrifici per propiziarsi il suo dio). Negli Stati Uniti di solito il freddo uccideva la ruggine del grano, ma in Messico, che è un paese più caldo, era una presenza costante, e a ogni primavera i venti la spingevano oltreconfine infettando di nuovo i campi statunitensi.
Essendo l’unico ricercatore della Rockefeller a lavorare sul frumento, Borlaug aveva a disposizione così pochi fondi che dovette dormire per mesi nelle capanne e nei campi. Ma a metà degli anni cinquanta riuscì a produrre una varietà di grano resistente a molti ceppi di ruggine. Non solo, ne creò anche un tipo dallo stelo molto più corto del normale, che sarebbe stato chiamato “semi-nano”.
In passato, quando si usavano molti fertilizzanti, il grano cresceva così rapidamente che i suoi steli diventavano troppo lunghi e sottili e si piegavano al vento. Incapaci di raddrizzarsi, le piante marcivano e morivano. La varietà più corta e robusta sviluppata da Borlaug era in grado di assorbire più fertilizzante e usare le risorse per far crescere i chicchi invece che le radici o lo stelo.
Durante le prime sperimentazioni a volte gli agricoltori ottennero raccolti dieci volte più grandi. La produzione aumentò a una tale velocità che nel 1968 un funzionario dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale la definì una “rivoluzione verde”, dando il nome al fenomeno che avrebbe segnato il ventesimo secolo.
Gli effetti della rivoluzione verde si videro soprattutto in Asia. Nel 1962 la fondazione Rockefeller e la fondazione Ford avevano aperto nelle Filippine l’Istituto internazionale per la ricerca sul riso (Irri). All’epoca almeno metà dell’Asia soffriva la fame, e in molte regioni la produzione agricola era stagnante o in declino. I governi che si erano appena liberati dal colonialismo stavano lottando contro le insurrezioni comuniste, soprattutto in Vietnam.
I politici statunitensi pensavano che il fascino del comunismo fosse dovuto alla sua promessa di un futuro migliore. Washington voleva dimostrare che lo sviluppo era più facile sotto il capitalismo. La speranza dell’Irri era che le sue équipe di ricercatori avrebbero trasformato l’Asia introducendo rapidamente una coltivazione del riso più moderna.
Su indicazione di Borlaug, i ricercatori dell’Irri crearono nuove varietà di riso ad alto rendimento, che negli anni settanta e ottanta si diffusero in tutta l’Asia riuscendo quasi a triplicare la produzione. Più dell’80 per cento del riso prodotto in Asia oggi viene dall’Irri. Anche se la popolazione del continente è notevolmente aumentata, gli uomini, le donne e i bambini asiatici consumano in media il 30 per cento di calorie in più di quando fu fondato l’Irri.
Seoul e Shanghai, Jaipur e Jakarta, i grattacieli scintillanti, gli hotel di lusso e le strade trafficate piene di insegne al neon: alla base di tutto c’è quel riso nato in laboratorio. I profeti erano stati smentiti? La capacità portante era solo una fantasia? No. Come aveva previsto Vogt, l’enorme aumento di produttività ha provocato danni ambientali altrettanto enormi: il prosciugamento di falde acquifere, il deflusso dei fertilizzanti, la formazione di zone morte nei mari e l’impoverimento del suolo.
E, cosa ancora peggiore dal punto di vista umano, il boom della produttività ha fatto aumentare il valore dei terreni coltivabili. Improvvisamente valeva la pena rubarli, e in molti posti le élite agricole cominciarono a farlo, cacciando i contadini poveri dalle loro terre. I profeti sostenevano che la rivoluzione verde avrebbe semplicemente ritardato la crisi alimentare: era una soluzione momentanea, non permanente. E l’aumento della popolazione e della ricchezza significano che, proprio come dicevano i profeti, la produzione dovrà fare un altro balzo in avanti.
Ci vorrà una seconda rivoluzione verde, spiegano i maghi.Anche se nel 2050 la popolazione del pianeta supererà solo del 25 per cento quella di oggi, secondo le proiezioni attuali servirà un aumento della produzione agricola compreso tra il 50 e il 100 per cento. Il motivo principale è che un maggiore benessere ha sempre determinato un maggior consumo di prodotti di origine animale come i formaggi, il latte, il pesce, ma soprattutto la carne, e coltivare mangime per gli animali richiede molta più terra, acqua ed energia che produrre e consumare semplicemente piante.
Non è possibile prevedere esattamente quanta più carne vorranno mangiare i miliardi di persone del futuro, ma se saranno carnivore come lo sono gli occidentali di oggi, il problema sarà enorme. E, avvertono i profeti, altrettanto enormi saranno le catastrofi provocate dal tentativo di soddisfare la domanda di hamburger e bacon: paesaggi devastati, guerre per l’acqua, appropriazione di terre che lasceranno migliaia di contadini dei paesi poveri senza mezzi di sussistenza.Che fare?
Alcune delle strategie della prima rivoluzione verde non sono più praticabili. Gli agricoltori non possono coltivare molta più terra, perché quasi ogni ettaro di terreno coltivabile viene già sfruttato. Non si possono neanche usare più fertilizzanti perché, tranne che in alcune zone dell’Africa, se ne usano già troppi e il loro deflusso sta inquinando fiumi, laghi e oceani. Neanche l’irrigazione può essere intensificata, perché quasi tutte le terre che possono essere irrigate lo sono già. I maghi pensano che la cosa migliore da fare sia usare l’ingegneria genetica per creare varietà a più alto rendimento.
Secondo i profeti questo significherebbe superare ulteriormente la capacità portante del pianeta. Dobbiamo andare nella direzione opposta, dicono: usare meno terra, sprecare meno acqua, smettere di versare sostanze chimiche nell’una e nell’altra. Quasi tutti mangiamo ogni giorno, ma pochi di noi si pongono il problema di com’è possibile. Se a scuola si studiasse la storia dell’agricoltura, più persone conoscerebbero il nome di Justus von Liebig, che a metà dell’ottocento scoprì che la quantità di azoto contenuta nel terreno determina il tasso di crescita di una pianta.
Gli storici della scienza hanno accusato Liebig di aver falsificato i dati e di aver rubato idee ad altri e, per quanto ne so, hanno ragione. Ambiguo ma lungimirante, Liebig immaginava un nuovo tipo di agricoltura, legato alla chimica e alla fisica. Il suolo era solo una base con gli attributi fisici necessari per sostenere le radici. Versandoci dentro composti chimici contenenti azoto, cioè i fertilizzanti industriali, si sarebbero automaticamente ottenuti raccolti giganteschi. I suoi erano i primi passi in direzione di un’agricoltura industriale regolata dalla chimica, una prima versione del pensiero dei maghi.Ma non esisteva un modo semplice per produrre l’azoto che doveva nutrire le piante.
Quella tecnologia sarebbe arrivata durante la prima guerra mondiale grazie a due chimici tedeschi, Fritz Haber e Carl Bosch. Il premio Nobel che ricevettero fu sicuramente meritato. Il procedimento Haber-Bosch, come è chiamato, è stato probabilmente l’innovazione tecnologica del novecento che ha prodotto le conseguenze più ampie. Oggi è alla base di quasi tutti i fertilizzanti sintetici del mondo. Poco più dell’1 per cento dell’energia industriale del pianeta è usata per questo processo. “Quell’1 per cento”, ha osservato il futurologo Ramez Naam, “quasi raddoppia la quantità di cibo che possiamo coltivare”. Più di tre miliardi di uomini, donne e bambini – una quantità di speranze, paure, ricordi e sogni così vasta che è impossibile da immaginare – devono la loro esistenza a due oscuri chimici tedeschi.
Le zone morte
Ma subito dopo i guadagni sono arrivate le perdite. Circa il 40 per cento dei fertilizzanti usati negli ultimi sessant’anni non è stato assorbito dalle piante, ma è defluito nei fiumi o evaporato nell’aria sotto forma di protossido di azoto. I concimi che finiscono nell’acqua continuano a fertilizzare: facilitano la crescita di alghe e altri organismi acquatici. Quando muoiono, questi organismi cadono sul fondo di fiumi, laghi e oceani, dove i microbi si nutrono dei loro resti. Grazie a questa manna di alghe morte, i microbi crescono così rapidamente che con la loro respirazione consumano l’ossigeno degli strati più profondi, uccidendo quasi tutte le altre forme di vita.
Ogni estate l’azoto delle fattorie del Midwest americano scende lungo il fiume Mississippi fino al golfo del Messico, creando una zona morta priva di ossigeno che nel 2016 aveva già raggiunto un’estensione di oltre diciottomila chilometri quadrati. L’anno successivo ne è stata scoperta una ancora più ampia – sessantamila chilometri quadrati – nel golfo del Bengala, al largo della costa orientale dell’India.
Salendo nell’aria, il protossido di azoto dei fertilizzanti rappresenta una delle principali cause d’inquinamento. Nella stratosfera si lega all’ozono, che protegge le forme di vita sulla superficie terrestre bloccando i cancerogeni raggi ultravioletti, e lo neutralizzano. Se non fosse per il cambiamento climatico, ipotizza il divulgatore scientifico Oliver Morton, la diffusione dell’azoto sarebbe probabilmente la nostra maggiore preoccupazione ambientale.
La lotta contro l’azoto cominciò prima ancora che Haber e Bosch ricevessero il premio Nobel. Il suo leader era un ragazzo di campagna inglese di nome Albert Howard (1873-1947), che passò quasi tutta la sua carriera nell’India britannica come botanico ufficiale dell’impero.
Howard e sua moglie Gabrielle, una fitofisiologa che aveva studiato a Cambridge, crearono nuove varietà di frumento e tabacco, svilupparono nuovi tipi di aratro e verificarono gli effetti di una dieta più sana per i buoi. Alla fine della prima guerra mondiale si erano ormai convinti che il terreno non era semplicemente una base per gli additivi chimici. Era un sistema vivente complesso che richiedeva una delicata combinazione di sostanze nutrienti contenute nei residui animali e vegetali: letame e scarti di raccolto.
Gli Howard riassunsero le loro idee in quella che chiamarono la legge del ritorno: “La fedele restituzione alla terra di tutti gli scarti vegetali, animali e umani disponibili”. Noi dipendiamo dalle piante, le piante dipendono dal terreno e il terreno dipende da noi. An agricultural testament, uscito nel 1943, sarebbe diventato il testo fondativo dell’agricoltura biologica. I maghi erano i paladini dei fertilizzanti sintetici e i profeti li condannavano, ma erano uniti dall’ignoranza.
All’epoca nessuno sapeva perché le piante dipendessero tanto dall’azoto. Solo dopo la seconda guerra mondiale gli scienziati avrebbero scoperto che ne hanno bisogno soprattutto per produrre un enzima chiamato rubisco (ribulosio-bisfosfato carbossilasi), un fattore importantissimo nelle interazioni che sono alla base della fotosintesi.
Nella fotosintesi, come tutti abbiamo imparato a scuola, le piante usano l’energia del sole per scindere l’anidride carbonica e l’acqua, mescolando i loro costituenti nei composti necessari per formare le radici, i gambi, le foglie e i semi. La rubisco è un enzima che svolge un ruolo chiave in questo processo. Gli enzimi sono catalizzatori biologici. Come i pedoni che provocano incidenti stradali ma ne escono indenni, gli enzimi provocano reazioni biochimiche ma non sono modificati da quelle reazioni.
La rubisco prende l’anidride carbonica dall’aria, la inserisce nel vortice della fotosintesi e poi torna a prenderne ancora. Dato che questi movimenti sono fondamentali per il processo, la velocità della fotosintesi dipende dalla rubisco.Purtroppo, per gli standard biologici la rubisco è una pigrona scansafatiche che si muove molto lentamente.
Mentre altri enzimi catalizzano migliaia di reazioni al secondo, la rubisco arriva al massimo a due o tre. Inoltre è anche imbranata: due volte su cinque sbaglia e cattura l’ossigeno al posto dell’anidride carbonica, interrompendo la catena di reazioni della fotosintesi e sprecando energia e acqua. Per rimediare alla sua pigrizia e goffaggine, le piante ne producono molta, e quindi hanno bisogno di tanto azoto.
Rispetto al peso complessivo, circa metà delle proteine contenute nelle foglie delle piante sono rubisco: si dice che sia la proteina più abbondante al mondo. Qualcuno ha calcolato che le piante e i microrganismi contengono cinque chili di rubisco per ogni persona sulla Terra.Si poteva pensare che l’evoluzione avrebbe migliorato la rubisco, ma non è andata così.
Ha però prodotto un modo per aggirare il problema: la fotosintesi C4 (cioè con una molecola a quattro atomi di carbonio), in cui l’anidride carbonica è catturata da un enzima diverso. Le piante C4 hanno bisogno di meno acqua e meno concime delle altre, perché non sprecano risorse a causa degli errori della rubisco.
Con grande sorpresa dei biologi, la fotosintesi C4 si è sviluppata autonomamente in più di sessanta specie diverse tra loro come il granturco, la canna da zucchero e la sanguinella. Nell’equivalente botanico di una missione spaziale, gli scienziati di tutto il mondo stanno collaborando per trasformare il riso in una pianta C4, che crescerebbe più rapidamente, richiederebbe meno acqua e fertilizzanti e renderebbe di più. È difficile sopravvalutare le dimensioni e l’audacia di questo progetto.
Il riso è l’alimento più importante del mondo, è alla base della dieta di metà della popolazione del pianeta, così profondamente legato alle culture asiatiche che in cinese e giapponese riso e pasto sono varianti della stessa parola. Nessuno è in grado di prevedere con certezza quanto riso sarà necessario produrre entro il 2050, ma le stime si aggirano intorno al 40 per cento in più, a causa dell’aumento sia della popolazione sia del benessere, che permetterà a persone che prima erano povere di passare al riso da alimenti meno ricercati come il miglio e la patata dolce.
Nel frattempo i terreni su cui è possibile piantare il riso diminuiscono perché le città si espandono, la domanda d’acqua prosciuga i fiumi, gli agricoltori passano a colture più redditizie e il cambiamento climatico desertifica le terre coltivabili. Non avere abbastanza riso sarebbe una catastrofe che avrebbe conseguenze in tutto il mondo.Il C4 rice consortium è un tentativo di garantire che questo non succeda mai.
Finanziato in gran parte dalla fondazione Bill & Melinda Gates, è il progetto d’ingegneria genetica più ambizioso al mondo. Ma il termine ingegneria genetica non basta a descriverlo. L’ingegneria genetica di cui si parla sui giornali di solito riguarda grandi aziende che inseriscono in una coltura un pacchetto di materiale genetico, in genere preso da una specie estranea.
Un esempio classico è quello della soia Roundup ready della Monsanto, che contiene un frammento del dna di un batterio trovato in uno stagno inquinato in Louisiana. Quel frammento permette alla pianta di assemblare nelle foglie e negli steli un composto chimico che blocca gli effetti del Roundup, un diserbante della Monsanto molto usato. Grazie al gene estraneo, è possibile spruzzare il diserbante sui campi di soia per distruggere le erbe infestanti senza danneggiare il raccolto.
A parte la proteina in questione, la soia così ottenuta è assolutamente identica a quella normale.Quello che il C4 rice consortium sta cercando di fare somiglia alla modificazione genetica quanto un Boeing 787 a un aeroplanino di carta. Invece di modificare i singoli geni per poi commercializzare i semi, gli scienziati stanno cercando di modificare la fotosintesi, uno dei processi fondamentali della vita. Dato che la fotosintesi C4 si è sviluppata in tante specie diverse, pensano che la maggior parte delle piante possieda i suoi geni precursori.
La speranza è che il riso sia una di queste, e che il consorzio riesca a individuare e risvegliare i geni C4 inattivi, seguendo una strada che l’evoluzione ha già preso molte volte. L’idea è riuscire a riattivare pezzi di materiale genetico già presenti nel riso (o usare geni molto simili presi da specie imparentate ma più facili da trattare) per creare una specie nuova e più produttiva. Diciamo che il riso comune, Oryza sativa, diventerebbe un’altra cosa: Oryza nova, tanto per dire. Nessuna azienda trarrebbe profitto dal risultato: l’Irri, dove si svolge la maggior parte delle ricerche, regalerebbe i semi modificati, come fece con il riso della rivoluzione verde.
Mani legate
Quando ho visitato l’Irri, una cinquantina di chilometri a sudest di Manila, decine di persone stavano facendo quello che gli scienziati sanno fare meglio: suddividere il problema in tante parti per poi affrontarle una alla volta. A dirigere il C4 rice consortium è Jane Langdale, una genetista del dipartimento di scienza delle piante di Oxford. I primi risultati della ricerca, mi ha detto, suggeriscono che la struttura delle foglie dipende soprattutto da una decina di geni, e la loro biochimica da altri dieci. Tutti questi geni devono essere attivati in un modo che non influisca sulle qualità desiderabili che la pianta già possiede e che gli consenta di agire in modo coordinato.
Il passo successivo, altrettanto difficile, sarebbe creare varietà di riso capaci di incanalare la crescita supplementare provocata dalla C4 nei chicchi, piuttosto che nelle radici o negli steli. Queste varietà dovranno anche essere resistenti alle malattie, facili da coltivare e appetibili per le popolazioni asiatiche, africane e latinoamericane alle quali sono destinate.“Io credo che sia possibile, ma forse non succederà mai”, dice Langdale.
Ma anche se il riso C4 incontrasse ostacoli insormontabili, aggiunge, esistono altri progetti di ricerca. Mais che si fertilizza da solo, grano che può crescere nell’acqua salata, miglioramenti negli ecosistemi del suolo. Le probabilità che ciascuno di questi progetti vada in porto non sono molte, ma è altrettanto improbabile che tutti falliscano. Secondo Langdale il processo avviato da Borlaug va ancora a gonfie vele.
Da quando i maghi e i profeti litigano tra loro su come sfamare il mondo, i maghi hanno sempre sostenuto che il tipo di agricoltura proposta dai loro avversari non può produrre abbastanza cibo per il futuro. Negli ultimi vent’anni decine di équipe di ricerca hanno comparato l’agricoltura industriale e quella biologica. Queste ricerche sono state a loro volta raccolte e valutate, anche se con qualche difficoltà di confronto, perché gli studiosi usano definizioni diverse di biologico, confrontano tra loro tipi diversi di aziende agricole e includono nelle loro analisi costi differenti.
Nonostante questo, a quanto ne so ogni tentativo di combinare e confrontare dati ha dimostrato che l’agricoltura dei profeti produce meno calorie per ettaro di quella dei maghi, secondo alcuni di poco, secondo altri di molto. Per i maghi le implicazioni sono ovvie: se gli agricoltori dovranno produrre il doppio per sfamare dieci miliardi di persone, rispettando la legge del ritorno di Albert Howard per conservare gli ecosistemi avranno le mani legate.I profeti aggrottano le sopracciglia davanti a questa logica.
Secondo loro, valutare i metodi di coltivazione solo in termini di calorie per ettaro è una follia. Non tiene conto dei costi individuati da Vogt: il deflusso dei fertilizzanti, il degrado delle risorse acquifere, l’erosione e la compattazione del suolo, l’abuso di pesticidi e antibiotici. Non considera la distruzione delle comunità rurali. E non valuta se il cibo è nutriente e buono.I maghi rispondono che il riso C4 richiederà meno fertilizzanti e meno acqua per ogni caloria prodotta, quindi per l’ambiente sarà meno dannoso delle coltivazioni tradizionali. “È come cercare di spegnere un incendio versandoci sopra meno benzina!”, dicono i profeti. “Bisogna mangiare meno carne!”.
Secondo i maghi, l’idea che l’agricoltura dovrebbe imitare la varietà degli ecosistemi è una sciocchezza: solo un tipo di agricoltura iperintensiva su scala industriale che usa sementi superproduttive geneticamente modificate può sfamare il mondo di domani.Produttività? Se è per questo anche noi abbiamo i nostri progetti a lungo termine, rispondono i profeti. E in effetti ce l’hanno.Grano, riso, granturco, avena, orzo, segale e gli altri cereali comuni sono piante annuali che devono essere riseminate ogni anno. Invece le erbe selvatiche che un tempo coprivano le praterie sono perenni: rinascono da sole ogni estate anche per dieci anni consecutivi.
Dato che hanno un sistema di radici molto profondo, trattengono meglio il suolo e dipendono meno dall’acqua piovana e dalle sostanze nutrienti di superficie – cioè dall’irrigazione e dai concimi artificiali – rispetto a quelle annuali. Molte sono anche più resistenti alle malattie. Non dovendo formare nuove radici ogni primavera, le perenni spuntano dal terreno prima e più velocemente delle annuali. E dato che d’inverno non muoiono, la fotosintesi continua anche durante l’autunno, mentre nelle annuali s’interrompe. In pratica, hanno una stagione di crescita più lunga.
Producono cibo anno dopo anno senza l’erosione provocata dall’aratura. Potrebbero essere produttive quanto i cereali della rivoluzione verde, dicono i profeti, ma senza rovinare la terra, senza consumare acqua e senza bisogno di forti dosi di fertilizzanti. Sul modello del programma messicano di Borlaug, alla fine degli anni ottanta il Rodale institute, la più antica organizzazione di ricerca sull’agricoltura biologica statunitense, ha raccolto 250 campioni di Thinopyrum intermedium, un parente perenne del frumento introdotto nell’emisfero occidentale dall’Asia negli anni trenta come mangime per gli animali.
In collaborazione con i ricercatori del dipartimento dell’agricoltura statunitense, Peggy Wagoner del Rodale institute ha piantato alcuni campioni, ne ha misurato la produzione e ha incrociato tra loro quelli che davano risultati migliori, nel tentativo di creare una pianta perenne commercializzabile. Nel 2002 Wagoner e il Rodale hanno passato il testimone al Land institute di Salina, nel Kansas, un centro di ricerche agricole senza scopo di lucro che ha l’obiettivo di sostituire l’agricoltura tradizionale con processi simili a quelli che esistono negli ecosistemi naturali.
Da allora il Land institute, in collaborazione con altri ricercatori, lavora sul T. intermedium e ha perfino dato a una sua varietà il nome commerciale di Kernza.Come il riso C4, ilT. intermedium potrebbe non soddisfare le aspettative dei suoi creatori. I suoi chicchi sono grandi un quarto di quelli del grano, a volte anche meno, e hanno uno strato più spesso di crusca. Diversamente dal grano, ha una fitta massa di foglie scure che copre i campi, protegge il suolo e tiene alla larga le erbe infestanti, ma riduce anche la quantità di chicchi che la pianta produce.
Per renderla utilizzabile bisognerà aumentare le dimensioni dei chicchi, modificare la struttura della pianta e migliorare le qualità che consentono la panificazione. Il lavoro è lento: essendo una pianta perenne, dev’essere valutata nel corso degli anni piuttosto che in un’unica stagione. Il Land institute spera di realizzarne una varietà con chicchi grandi il doppio di quelli attuali (anche se ancora la metà di quelli del grano) entro il 2020, ma non garantisce nulla.
Domesticare il T. intermedium è un lavoro lungo. Altri ricercatori stanno cercando una scorciatoia: ibridarlo con il grano tenero, nella speranza di combinare i chicchi grandi e abbondanti del primo con la resistenza alle malattie e il ciclo di vita perenne del secondo. Verso la metà del novecento i biologi nordamericani, tedeschi e russi hanno tentato senza successo per anni di sviluppare ibridi utilizzabili.
Incoraggiato dai nuovi sviluppi della biologia, intorno al 2000 il Land institute ha ricominciato da capo. Quando sono andato a trovare Stephen S. Jones dell’università di Washington, lui e i suoi colleghi avevano appena suggerito un nome scientifico per il nuovo ibrido che avevano creato e testato: Tritipyrum aaseae (in onore di Hannah Aase, una pioniera della genetica dei cereali). Ma resta ancora molto da fare: Jones spera che il pane fatto con il T. aaseae sarà pronto per i figli di mia figlia.
Quando sentono parlare di questi progetti, i ricercatori africani e latinoamericani rimangono perplessi. Coltivare grano perenne è il modo difficile dei profeti per aumentare i raccolti, dice Edwige Botoni, una ricercatrice del Comité permanent inter-états de lutte contre la sécheresse au Sahel (Cilss), in Burkina Faso. Viaggiando lungo i margini del Sahara, Botoni ha riflettuto molto su come nutrire le popolazioni che vivono su terre di bassa qualità. Una soluzione, dice, potrebbe essere imitare paesi tropicali come la Nigeria e il Brasile.
Mentre i coltivatori delle zone temperate si concentrano sui cereali, quelli delle regioni tropicali preferiscono i tuberi e gli alberi, che di solito rendono più dei cereali.Prendiamo per esempio la cassava, un grosso tubero noto anche come manioca o yuca. In termini di produzione è all’undicesimo posto tra tutte le colture del mondo, ed è coltivata in ampie zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. La parte commestibile cresce sottoterra.
A livello di resa per ettaro, la cassava supera di molto il frumento e gli altri cereali. Il paragone non è proprio corretto, perché i tuberi di cassava contengono più acqua dei chicchi di cereali. Ma anche tenendo conto di questo, la cassava produce più calorie per ettaro del frumento. Nelle regioni settentrionali il suo equivalente è la patata, che rende dieci volte più del frumento. “Non capisco perché questa alternativa non venga presa in considerazione”, dice Botoni. Sebbene in molte culture la cassava sia poco conosciuta, introdurla “sembra più facile che sviluppare una specie completamente nuova”.
Lo stesso discorso vale più o meno per gli alberi. Un albero adulto di mele McIntosh può produrre dai 160 ai 250 chili di mele all’anno. I coltivatori di solito piantano dai 500 ai 625 alberi per ettaro. Nelle annate migliori questo può significare dalle 90 alle 160 tonnellate di mele per ettaro, rispetto alle quattro del grano. Come la cassava e le patate, le mele contengono più acqua del frumento, ma la resa calorica per ettaro rimane comunque più alta.
Perfino papaye e banani producono più del frumento, come anche i castagni. Con mele, castagne e papaye non si possono fare panini croccanti, tortillas o dolci soffici come una nuvola, ma oggi la maggior parte dei cereali è destinata alla produzione di mangime per gli animali, cereali da colazione, sciroppi ed etanolo, e anche i tuberi e la frutta possono essere usati a questo scopo.
Linee parallele
Sto dicendo che gli agricoltori di tutto il mondo dovrebbero sostituire i loro campi di frumento, riso e mais con campi di cassava e patate o alberi di banano, melo e castagno? No. Sto solo dicendo che i profeti offrono varie soluzioni ai bisogni del futuro. Queste strade alternative sono difficili da percorrere, ma lo è anche quella proposta dai maghi con il riso C4. L’ostacolo maggiore per i profeti è un altro: la forza lavoro.Dalla fine della seconda guerra mondiale, la maggior parte dei governi ha volutamente allontanato la forza lavoro dall’agricoltura (anche se per molto tempo la Cina comunista è stata un’eccezione).
Lo scopo era meccanizzare le fattorie per aumentare la produzione e ridurre i costi, soprattutto quelli della manodopera. I contadini, non più necessari, si sarebbero trasferiti nelle città, dove avrebbero potuto trovare lavori meglio pagati di quelli agricoli. L’idea di Borlaug era che sia gli agricoltori rimasti sia gli operai delle fabbriche avrebbero guadagnato di più, i primi coltivando prodotti migliori in maggiore quantità, i secondi trovando posti di lavoro meglio pagati nell’industria. Il paese nel suo complesso ne avrebbe tratto vantaggio: più esportazioni di prodotti industriali e agricoli, cibo più economico per le città e manodopera abbondante.
Ma c’erano anche i lati negativi. Le città dei paesi in via di sviluppo si sono riempite di quartieri degradati abitati da famiglie povere. E in molte regioni, anche del mondo sviluppato, le campagne si sono svuotate.A un certo punto, molti stati del mondo hanno introdotto incentivi fiscali, prestiti agevolati, programmi di formazione e sussidi diretti per aiutare le grandi aziende agricole ad acquistare macchinari e fertilizzanti e a coltivare certi tipi di prodotti per l’esportazione. Dato che questo sistema è ancora in piedi, i seguaci di Vogt remano contro corrente.
Per loro l’agricoltura dovrebbe prima di tutto prendersi cura del terreno, il che significa appezzamenti più piccoli e coltivazioni più varie, cosa che diventa difficile da realizzare se ci si concentra sulla produzione di un unico tipo di coltura. Per un’agricoltura simile bisognerebbe riportare nei campi almeno alcuni dei discendenti di chi ha lasciato le campagne.
Per garantire a queste persone uno standard di vita decoroso bisognerebbe aumentare i costi. Un po’ di meccanizzazione è accettabile, ma nessuno dei piccoli agricoltori con cui ho parlato pensa che sarebbe possibile ridurre la forza lavoro al livello delle grandi aziende industriali. L’intero sistema potrebbe funzionare solo riscrivendo completamente le leggi che regolano l’uso della manodopera. Un cambiamento sociale simile non si realizza facilmente.
È questa l’origine della lunga disputa tra maghi e profeti. Anche se si parla di calorie per ettaro e di conservazione degli ecosistemi, il disaccordo alla base del dibattito riguarda la natura stessa dell’agricoltura, e di conseguenza della società. Per i seguaci di Borlaug, coltivare la terra è un lavoro utile ma faticoso che dovrebbe essere ridotto il più possibile per aumentare al massimo la libertà dei singoli individui. Per i seguaci di Vogt, agricoltura significa mantenere le comunità ecologiche e umane che hanno garantito la vita dai tempi della prima rivoluzione agricola, più di diecimila anni fa. Sarà anche un lavoro faticoso, ma rafforza il rapporto tra gli esseri umani e il pianeta.
Queste due concezioni sono come linee rette che si trovano su piani diversi e non s’incontreranno mai.Oggi mia figlia ha 19 anni e frequenta il secondo anno di università. Nel 2050 sarà una donna di mezza età. Spetta alla sua generazione creare le istituzioni, le leggi e le abitudini che consentiranno di soddisfare i bisogni umani fondamentali in un mondo con dieci miliardi di abitanti. Ogni generazione decide il futuro, ma le scelte che farà la generazione dei miei figli avranno conseguenze demografiche per un tempo imprecisabile. Maghi o profeti? Non si tratta di decidere quello che è possibile, ma quello che è giusto.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 6 aprile 2018 nel numero 1250 di Internazionale.
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