Salman Rushdie
Est, Ovest
Mondadori, 184 pagine, 14,50 euro

Pensavo di aver letto tutto (o quasi) di Salman Rushdie, e invece questa settimana, grazie a una recensione scritta da Namrata Poddar nel 2016 su LitHub, mi sono resa conto di non aver mai sentito parlare di questa raccolta di racconti, pubblicata per la prima volta nel 1996. L’antologia è divisa in tre parti: Est, Ovest e poi Est, Ovest. Un andirivieni geografico tra quelle due smisurate categorie sociali e culturali che sono l’oriente e l’occidente, forse nel tentativo di replicare l’esperienza dell’autore, abituato a stare con i piedi in due continenti. A sostegno della geografia c’è una serie di racconti ironici e di personaggi iconici che, da un lato, mediano tra il mondo reale e il surreale, trovando sempre qualcosa di sorprendente nel quotidiano e, dall’altro, cercano di smascherare una serie di mitologie occidentali, svelando l’ovest nel suo essere uno specchietto per le allodole.

Poddar osserva che molta letteratura postcoloniale produce scritture debitrici della forma orale più che della tradizione (occidentale) del romanzo scritto. Nel libro di Rushdie questo emerge soprattutto in alcuni racconti, nella voce di un narratore interno che svolge quasi il ruolo del cantastorie, del menestrello. Est, Ovest è una raccolta sullo scontro culturale, sulle nozioni elusive di identità e radici: su come, a cambiare punto di vista, tutto appaia esotico e tutto ugualmente vano. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1641 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati