“La carestia non è solo un rischio, ma una realtà che minaccia di diffondersi rapidamente in quasi tutta la Striscia di Gaza. Le Nazioni Unite hanno avvertito che la crisi umanitaria a Gaza è la peggiore degli ultimi diciotto mesi”. Dodici tra le più grandi organizzazioni umanitarie del mondo hanno firmato l’appello che contiene questa frase, pubblicato il 18 aprile. Intitolato “Lasciateci fare il nostro lavoro”, il documento sottolinea l’urgenza della situazione nella Striscia, dove i bisogni più elementari non sono soddisfatti. Il territorio palestinese è chiuso ermeticamente. Dal 2 marzo neanche un camion di aiuti ha attraversato i valichi, tutti controllati da Israele. Gli operatori umanitari raccontano la cronaca di una catastrofe annunciata.
Il governo israeliano ha deciso il blocco totale alla fine della prima fase della tregua cominciata il 19 gennaio. La seconda fase prevedeva che i gruppi armati palestinesi restituissero gli ultimi ostaggi israeliani, vivi e morti. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra hanno deciso di modificare i termini dell’accordo, pretendendo una proroga della prima fase e la liberazione incondizionata di tutti gli ostaggi. Netanyahu ha scelto il blocco degli aiuti come strumento di pressione. Dopo il rifiuto di Hamas, ha interrotto il cessate il fuoco. Nella notte tra il 17 e il 18 marzo i bombardamenti sono ripresi con estrema intensità. Da allora, la Striscia è bombardata senza sosta, intere aree sono occupate dalle forze di terra e la popolazione è di nuovo sballottata da una parte all’altra. “Neppure un chicco di grano entrerà a Gaza”, ha dichiarato Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, il 7 aprile.
Usare come un’arma gli aiuti umanitari è una violazione del diritto internazionale. Anche il presidente francese Emmanuel Macron l’ha ricordato l’8 aprile, durante la sua visita in Egitto, di fronte ai responsabili di organizzazioni umanitarie disperatamente in attesa di far entrare i prodotti di prima necessità nella Striscia.
Il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha ribadito il 16 aprile: “Nessuno prende in considerazione l’idea di autorizzare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza”. Gli operatori guardano le scorte esaurirsi inesorabilmente. Secondo una fonte che vuole restare anonima, a metà aprile il Programma alimentare mondiale (Pam) ha terminato la distribuzione di tutte le scorte ai partner. Alla fine di marzo c’erano ancora 5.700 tonnellate di cibo, ma oggi i magazzini dell’Onu sono vuoti e le organizzazioni che riforniscono le mense comunitarie hanno quanto basta “per pochi giorni al massimo” (il 25 aprile il Pam ha annunciato di aver esaurito le scorte).
Le cucine collettive servite dal Pam, chiamate tekkiya, distribuiscono fra i 360mila e i 400mila pasti caldi al giorno. Insieme a quelli dell’organizzazione World central kitchen, che ne fornisce altrettanti, non raggiungono nemmeno la metà della popolazione di Gaza. “Un pasto contiene solo il 25 per cento delle calorie necessarie in un giorno”, continua la fonte. Eppure, è spesso l’unico disponibile, da quando i 25 panifici riforniti dal Pam hanno chiuso dopo aver finito le riserve di farina. Un milione di persone si è ritrovato senza pane, che da mesi era la base della sua alimentazione a causa della scarsità di altri prodotti e dei prezzi troppo alti per la maggior parte delle famiglie.
“Un pasto contiene solo il 25 per cento delle calorie necessarie in un giorno”
Senza preavviso
Dall’inizio del blocco totale, il Pam ha ridotto le razioni distribuite normalmente alla metà della popolazione, che comprendevano per ogni nucleo familiare di cinque persone due sacchi da 25 chili di farina e due cartoni di 22 chili ciascuno contenenti riso, lenticchie e scatolame. “Stiamo distribuendo le ultime tende, gli ultimi kit igienici, gli ultimi prodotti sanitari di base e presto non saremo in grado di fornire più acqua potabile perché stiamo esaurendo gli strumenti di depurazione”, spiega Gavin Kelleher, dell’ong Norwegian refugee council (Nrc). Kelleher è responsabile dell’accesso umanitario ed è nella Striscia da un anno. Ricorda che gli ostacoli alla distribuzione degli aiuti non sono una novità: “Penso che lo facciano apposta per vanificare gli sforzi delle organizzazioni umanitarie, messe costantemente in difficoltà. Non siamo mai stati autorizzati a trasportare forniture sufficienti né a muoverci liberamente per arrivare a chi ha bisogno di aiuto”.
Fino al 2 marzo alcuni ostacoli derivavano da intralci burocratici. Improvvisamente da un giorno all’altro i pallet da 1,70 metri per lato dovevano misurarne 1,60. La lista dei prodotti vietati – quelli cosiddetti a duplice uso civile e militare – cambia continuamente e senza preavviso. Il divieto di importare batterie per auto, lampade a energia solare e generatori, per esempio, costituisce di per sé un ostacolo all’intervento umanitario: dopo più di un anno di guerra i motori sono esausti e i pezzi di ricambio introvabili. Molto più grave è il fatto che “Gaza ha ormai il triste record di luogo più mortale del mondo per gli operatori umanitari. Non possiamo lavorare sotto le bombe né restare in silenzio mentre il nostro personale è ucciso”, scrivono le dodici ong nell’appello del 18 aprile. “Dall’ottobre del 2023 sono stati uccisi più di 400 operatori umanitari e 1.300 professionisti della sanità, nonostante il diritto internazionale umanitario imponga la loro protezione”.
I movimenti all’interno della Striscia di Gaza sono pericolosi. Per spostarsi in sicurezza, gli operatori umanitari sono costantemente in contatto con due organismi israeliani legati all’esercito, da cui dipendono: il Coordinatore delle attività governative nei territori (Cogat), responsabile della supervisione degli affari umanitari a Gaza e in Cisgiordania, e l’Amministrazione per il coordinamento e il collegamento (Cla), che organizza le entrate e le uscite da Gaza. Sono questi a gestire gli spostamenti, l’ingresso e l’uscita di beni e persone. Questi movimenti rispondono a regole precise, stabilite dalle autorità israeliane. Per le zone “cuscinetto” in cui sono presenti i soldati e i blindati, lungo le “frontiere” con Israele e l’Egitto, nei “corridoi” creati dall’esercito, che oggi sono tre e vanno da est a ovest, e nelle zone in cui sono in corso operazioni militari, gli operatori umanitari hanno bisogno di un “coordinamento”. In questo caso, le informazioni sugli orari e i percorsi sono trasmesse dalle organizzazioni almeno ventiquattr’ore prima e condivise durante tutta l’operazione. In altre zone si usa un sistema più leggero, detto di “notifica”, per comunicare gli spostamenti.
Il sistema si è gradualmente irrigidito. “Prima del cessate il fuoco l’ufficio di coordinamento israeliano insieme all’esercito ci comunicava, per esempio: ‘Vi sconsigliamo questo spostamento’”, spiega un operatore umanitario di ritorno da Gaza. “Poi il messaggio è diventato: ‘Non terremo conto di questo spostamento’. In termini di protezione cambia tutto”.
Questa protezione già fragile è svanita dal 18 marzo. Anche se tutti gli edifici che ospitano organizzazioni umanitarie sono debitamente segnalati all’esercito israeliano, con tanto di coordinate gps, due palazzine con il logo del Comitato internazionale della Croce rossa sono state colpite il 24 marzo e il 16 aprile. Nessun operatore umanitario è più al sicuro. “Dall’interruzione del cessate il fuoco l’esercito si rifiuta di tenere conto delle notifiche”, dice Gavin Kelleher. “Di conseguenza molti operatori umanitari non escono più dalle loro sedi, per paura di essere presi di mira”. Due assi stradali percorrono la Striscia di Gaza da nord a sud. A est, la strada Salah al Din è vietata dall’esercito. La litoranea invece non può essere percorsa con un veicolo a motore. “Nel sud abbiamo ancora dei prodotti per le centrali di desalinizzazione, di cui abbiamo bisogno nel nord. Lo stesso vale per le tende e il carburante. Ma non ci danno l’autorizzazione per fare il tragitto con auto e camion”, spiega ancora Kelleher.
Le rotazioni del personale internazionale avvengono due volte alla settimana, ma in condizioni difficili. Due settimane prima le liste devono essere sottoposte alle autorità israeliane. Queste hanno elaborato nuove regole che vietano l’ingresso a chi non riconosce Israele come “stato ebraico e democratico”, a chi sostiene i tribunali internazionali che perseguono dirigenti e militari israeliani e a chi è favorevole agli appelli al boicottaggio di Israele. Anche i beni autorizzati sono limitati, non possono restare sul posto e devono uscire con le stesse persone con cui sono entrati. Lo stesso vale per giubbotti antiproiettile e caschi, computer e telefoni. “Inoltre, la quantità di contanti ammessa per persona è di 650 euro, una cifra ridicola per chi rimane settimane”, spiega l’operatore umanitario tornato da Gaza. “Non possiamo fornire ai nostri colleghi palestinesi né attrezzatura protettiva né denaro”.
Zone pericolose
Per di più, ci sono bande che saccheggiano i convogli, sotto gli occhi dei soldati israeliani. Le minacce riguardano soprattutto i camion e il loro carico. Presi di mira non da folle affamate, come è accaduto a volte, ma da bande armate che agiscono in zone controllate dall’esercito israeliano. Tutte le persone che hanno testimoniato hanno chiesto di restare anonime. La stragrande maggioranza degli attacchi e dei furti è avvenuta prima del cessate il fuoco. Durante la tregua la polizia di Hamas aveva ripreso il controllo del territorio e ha protetto i convogli. Seicento camion sono potuti entrare quotidianamente e raggiungere i magazzini delle organizzazioni umanitarie e delle imprese private che potevano noleggiarli.
Ma da quando la guerra è ricominciata, con la scarsità di provviste sono ripresi anche i saccheggi. Avvengono lungo il tragitto tra i magazzini e i punti di distribuzione, su scala minore rispetto a prima perché i movimenti umanitari si sono considerevolmente ridotti. Nel novembre 2024 l’Onu contava 75 convogli saccheggiati dalle bande armate. L’attacco più grande è avvenuto il 16 novembre: poco dopo essere entrati dal valico di Kerem Shalom, 109 camion noleggiati dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) e dal Pam sono stati presi d’assalto. Il carico di 98 mezzi è stato saccheggiato e i veicoli sono stati rubati o danneggiati.
◆ Il 28 aprile 2025 è cominciata all’Aja, nei Paesi Bassi, una settimana di udienze davanti alla Corte internazionale di giustizia (Cig) sugli obblighi umanitari d’Israele verso i palestinesi di Gaza. Sono previsti gli interventi di quaranta stati e tre organizzazioni multilaterali entro il 2 maggio. Al termine delle udienze, i giudici dovranno dare un parere sugli obblighi giuridici d’Israele – in quanto potenza occupante e paese delle Nazioni Unite – nei confronti delle agenzie dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali che si occupano della distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. A dicembre, l’assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato a larga maggioranza una risoluzione, presentata dalla Norvegia, che chiedeva alla Cig di emettere un parere consultivo “a titolo prioritario e con grande urgenza”. I pareri consultivi della Cig non sono vincolanti, ma potrebbero aumentare la pressione diplomatica su Israele. Afp, Le Monde
Tutti puntano il dito contro un uomo: Yasser Abu Shabab, rampollo di una famiglia beduina di Rafah, incarcerato e condannato per omicidio sotto l’amministrazione di Hamas e liberato durante la guerra. “Ha circa quarant’anni, ha investito in una piccola fabbrica molto vicino al valico di Kerem Shalom e ne ha fatto il suo quartier generale”, spiega Abu Sami, contrabbandiere di sigarette. “Ha cominciato a rubare gli aiuti bloccando i camion lungo la strada, poi è passato agli assalti armati”.
Gli Abu Shabab, una delle grandi famiglie beduine del sud della Striscia di Gaza, non avevano la reputazione di essere ladri né contrabbandieri. “I mokhtar di queste famiglie, gli uomini rispettati depositari dell’autorità tradizionale, ammettono di essere stati totalmente scavalcati e di non avere presa su queste bande”, assicura un testimone. “Ne hanno addirittura paura”.
Alcuni sostengono che il gruppo di Yasser Abu Shabab sia composto di sei-settecento uomini. Abu Iman, autista di camion, li chiama “le formiche”. Anche lui è stato minacciato e picchiato: “Quando attaccano, se non ti fermi, sparano sulle gomme o direttamente a te. Poi un uomo sale in cabina, ti si siede accanto e ti punta l’arma alla testa, e tu guidi così fino a un deposito. In genere è Abu Shabab che sorveglia le operazioni di scarico. Sa esattamente dove si trova quello che gli interessa”. Secondo Abu Sami cerca in particolare le sigarette, che entrano occultate in altri carichi, e il carburante. Alcune organizzazioni, soprattutto private, accettano di negoziare con Abu Shabab il “passaggio” dei loro camion, aggiunge Abu Sami. Altri pagano delle guardie armate per sorvegliare il tragitto del carico. “Le grandi ong internazionali e le agenzie dell’Onu si sono sempre rifiutate di piegarsi alle estorsioni”, afferma un operatore umanitario, che rimprovera agli israeliani di giocare a un gioco più che torbido.
Il quartier generale di Abu Shabab in effetti si trova vicino ai militari israeliani a Kerem Shalom. Gli attacchi avvengono in zone sotto il controllo dell’esercito israeliano, a volte a pochi passi dal valico. “Sono gli israeliani che, all’ultimo momento, ci danno l’ordine di prendere il corridoio Filadelfi per scendere a sud o di andare verso via Salah el Din”, afferma Abu Iman. “E ogni volta ci aspettavano e ci attaccavano verso Salah el Din”. Questa zona era diventata così pericolosa che le organizzazioni umanitarie hanno ottenuto il permesso di passare da un terminale più a nord, quello di Kissufim. Ma anche lì ci sono stati degli attacchi. “Sotto il naso dei soldati israeliani”, riferisce un altro operatore umanitario tornato da Gaza. “Eppure, sono in grado di mandare dei droni per attaccare i poliziotti di Hamas che proteggono i nostri convogli. E allora perché non gli uomini che li saccheggiano?”. I testimoni danno tutti la stessa risposta: le autorità israeliane favoriscono il caos per promuovere la loro idea di prendere in mano la distribuzione degli aiuti. Questo vorrebbe dire scegliere chi ne può beneficiare e consolidare definitivamente il controllo sulla popolazione.
Un documento lo conferma. Datato gennaio 2025, è intitolato “Piano umanitario per le isole di Gaza, fase intermedia”. Scritto dal Forum israeliano sulla difesa e la sicurezza, un istituto di ex ufficiali, sostiene la divisione della Striscia in isole in cui sarebbe concentrata la popolazione. La distribuzione degli aiuti sarebbe supervisionata e controllata da Israele: “La responsabilità dell’aiuto umanitario a Gaza sarebbe trasferita dall’Unrwa e da Hamas a una direzione umanitaria con sede nelle città che accolgono gli sfollati all’interno del territorio e sulla base di certificati biometrici”, scrivono gli autori. Che aggiungono: “La direzione umanitaria incaricata di coordinare le operazioni sarà israeliana, ma le città che accoglieranno gli sfollati e gli aiuti sul campo saranno gestite in modo autonomo dalla popolazione locale e dalle organizzazioni umanitarie”. Il Forum israeliano sulla difesa e la sicurezza è vicino alla coalizione di estrema destra al potere in Israele dal dicembre 2022, formata da chi ha promesso che “non un solo chicco di grano entrerà a Gaza”. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati