Sono entrato a far parte della redazione del quotidiano libanese L’Orient-Le Jour poco più di undici anni fa. A parte poche eccezioni, da allora ho la sensazione di aver scritto solo di crisi, guerre, massacri e lotte sanguinose per il potere e la sopravvivenza su scala locale, nazionale o regionale. I protagonisti sono diversi, ma le dinamiche di odio e violenza sono le stesse. Le recenti atrocità commesse ad Al Suwayda, in Siria, riecheggiano quelle del regime di Bashar al Assad, del gruppo Stato islamico, degli ausiliari arabi siriani contro i curdi, dell’asse iraniano, dell’Arabia Saudita nello Yemen, di Israele e di tanti altri. S’iscrivono nella continuità delle guerre in Siria, Iraq, Yemen, Libia, Sudan e Palestina. Dai gruppi parastatali alle potenze regionali, ciascuno per le proprie ragioni si convince che l’unica soluzione sia l’espulsione o lo sterminio degli altri.
Se la storia che cerco di comprendere e raccontare appare già come una successione di cicli infernali, intervallati da brevi momenti di speranza, come devono sentirsi i miei colleghi che commentano i tormenti della regione da decenni? Come non pensare agli orrori della guerra libanese seguendo la tragedia di Al Suwayda? Come possiamo convincerci di non essere condannati al peggio? Basta consultare gli archivi o i libri di storia per rendersi conto di quanto il tenere traccia dell’attualità – sia libanese sia regionale – sia segnato da un immenso paradosso: tutto può evolvere dall’oggi al domani, a causa della fragilità strutturale dei protagonisti, senza che questo cambi mai fondamentalmente le cose. Dalla caduta dell’impero ottomano, la storia del Medio Oriente è in perpetuo movimento, ma non riesce mai a reinventarsi.
La regione si trova ad affrontare una serie di problemi che non riesce a risolvere. In primo luogo, è da sempre un un teatro di lotta tra le potenze. E le cose sono peggiorate
La regione si trova infatti ad affrontare una serie di problemi che non riesce a risolvere. In primo luogo, è da sempre un teatro di lotta tra le potenze, e le cose sono peggiorate negli ultimi anni dopo il disimpegno dell’unica realmente dominante in Medio Oriente, gli Stati Uniti. La Giordania contro l’Egitto, l’Egitto contro l’Arabia Saudita, la Siria contro l’Iraq, l’Iraq contro l’Iran, l’Iran contro l’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita contro la Turchia. E la maggior parte contro Israele.
La questione palestinese è il secondo problema del Medio Oriente da decenni. S’intreccia a tutti gli altri mali della regione e, anche se a volte sembra farli finire in secondo piano, in realtà ne amplifica tutti gli effetti.
Il terzo elemento è la questione islamista. Che sia sunnita o sciita, che vesta gli abiti della Fratellanza musulmana, del salafismo, del jihadismo o del khomeinismo, l’islam politico ha segnato la storia della regione e delle sue società nel corso dell’ultimo secolo come strumento politico al servizio di una causa o di un asse, ma anche nei rapporti del Medio Oriente con il resto del mondo.
Il quarto e ultimo elemento è il più sottovalutato e tuttavia il più importante. Dalla caduta dell’impero ottomano è assente un modello politico, economico e sociale in grado di garantire un sistema di governo efficace, offrendo al tempo stesso uno spazio di libertà e tutelando le pluralità politiche, comunitarie, etniche e linguistiche che sono la linfa vitale di questa regione.
Il panarabismo era autoritario e rigido. L’islamismo, in tutte le sue forme, è reazionario e intollerante. I sedicenti regimi laici baathisti hanno offerto il peggio in termini di repressione e di strumentalizzazione del confessionalismo. Il modello libanese, malgrado tutti i suoi difetti, resta l’unico ad aver saputo preservare le libertà e la pluralità. Ma è diventato così disfunzionale nel nostro piccolo paese che sarebbe insensato volerlo riprodurre su scala regionale. Dopo più di un secolo di fallimenti, dobbiamo inventare un nuovo modello che permetta di neutralizzare le questioni identitarie senza però negarle; di “lasciare le nostre prigioni comunitarie senza necessariamente disfarci delle nostre appartenenze comunitarie”, come scriveva Samir Frangié nel suo saggio Voyage au bout de la violence (L’Orient des Livres 2011).
La nuova cittadinanza dovrebbe trascendere le nostre identità senza cercare di cancellarle, senza però essere imposta per decreto. Dev’essere alimentata dalle strutture statali, dai dibattiti politici laici e da una ripartizione più equa delle ricchezze. Si potrebbe affermare che tutto ciò è utopistico finché le problematiche geopolitiche restano irrisolte. Ma si potrebbe controbattere che focalizzandoci troppo sui fattori geopolitici abbiamo molto sottovalutato le dinamiche interne alle società, che a loro volta hanno influenzato la geopolitica quasi in misura uguale e contraria.
Le due battaglie in realtà sono indissolubili e devono essere affrontate con coraggio. Eppure sembra che abbiamo più strumenti per incidere su una che sull’altra. ◆ fdl
Questo articolo è uscito su L’Orient-Le Jour.
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Questo articolo è uscito sul numero 1624 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati