Il 22 giugno almeno ventidue persone sono morte in un attentato suicida in una chiesa cristiana di Damasco, secondo le autorità siriane, che hanno attribuito l’attentato al gruppo Stato islamico.

Le Nazioni Unite e molti paesi hanno condannato l’attentato, il primo di questo tipo nella capitale siriana da quando nel dicembre scorso una coalizione ribelle a guida islamista aveva deposto il regime di Bashar al Assad.

La sicurezza rimane una delle sfide più grandi per le nuove autorità, che la comunità internazionale ha invitato a proteggere le minoranze, includendole nel processo di transizione.

Il ministero dell’interno ha affermato che “un attentatore suicida affiliato al gruppo terroristico Stato islamico è entrato nella chiesa Sant’Elia, ha aperto il fuoco contro i fedeli e poi ha fatto esplodere la cintura esplosiva che indossava”.

Secondo l’ultimo bilancio del ministero della salute, citato dall’agenzia di stampa Sana, l’attentato ha causato 22 morti e 63 feriti.

L’inviato delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen, ha espresso “forte indignazione” e invitato le autorità a condurre un’indagine approfondita.

L’inviato statunitense per la Siria, Tom Barrack, ha denunciato “un atto di codardia” che non ha posto “nella nuova società tollerante e inclusiva che i siriani stanno costruendo”.

La Turchia, che ha stretti legami con il nuovo governo siriano, ha parlato di “attacco perfido”, il cui obiettivo è “seminare il caos”.

“Quest’atto criminale contro la comunità cristiana è un tentativo disperato di minare la convivenza nazionale e destabilizzare il paese”, ha affermato il ministero degli esteri siriano.

Il patriarcato ortodosso di Damasco ha però attribuito la responsabilità dell’attentato alle nuove autorità siriane, esortandole a garantire “l’inviolabilità delle chiese e la protezione di tutti i cittadini”.

Nella prima fase della guerra civile in Siria il gruppo Stato islamico aveva assunto il controllo di vaste aree del territorio siriano e iracheno, proclamando un “califfato” transfrontaliero nel 2014.

Nel 2019 le forze curde siriane sostenute dagli Stati Uniti avevano sconfitto il gruppo, che però aveva mantenuto una presenza nel paese, soprattutto nelle zone desertiche dell’est.