Mia amata Sammour, dopo anni di silenzio, lo scorso ottobre ho provato a scriverti una lettera. L’avevo intitolata “Custode della speranza”, perché la tua assenza è intrecciata al mio senso di speranza, personale e collettiva, che da undici anni si sgretola lentamente. Ma mi sono fermato dopo poche righe. Non avevo nulla da dirti sulla situazione. Tu sei la situazione. Solo tu hai vissuto tutto e solo tu puoi testimoniarlo. In questi anni, Sammour, ho fatto di tutto per dimenticare la tua scomparsa. Ma mi sorprendeva nei momenti più imprevedibili, strappandomi via proprio come hanno strappato via te, undici anni fa.

Eppure ora riprendo questa lettera. Scrivo quella che, se tu fossi qui, sarebbe la notizia più bella. Il regime è caduto. Bashar al Assad è fuggito in Russia. È successo qualcosa di straordinario, Sammour. Hayat tahrir al Sham, che quando sei scomparsa si chiamava ancora Fronte al nusra, ha lanciato un’operazione militare insieme ad altri gruppi ribelli per conquistare le aree controllate dal regime. I combattenti hanno rapidamente preso Aleppo, si sono diretti verso Hama, che è caduta dopo una certa resistenza, poi Homs, infine Damasco, liberata l’8 dicembre 2024 alle 6.18 del mattino, come ricordano gli adesivi sui parabrezza delle auto. Proprio il giorno prima dell’anniversario della tua scomparsa. È stata un’azione incredibilmente coraggiosa, conclusa in appena dodici giorni, fatta di coordinazione, disciplina e pochi abusi.

Quando i ribelli si sono mossi da Hama verso Homs, ho temuto che ci sarebbe stato un massacro e che i resti della città ancora in piedi sarebbero stati distrutti. Ma non è successo nulla. Le persone fuggite da Homs per paura della violenza settaria e delle ritorsioni, compresi alcuni nostri cari, sono tornate dopo due o tre giorni.

Tua sorella Najat e sua figlia Lulu sono rimaste in città e non hanno avuto problemi. Nomino solo loro perché Afif, purtroppo, è morto qualche mese fa. Quanto vorrei che avesse visto il giorno della liberazione. E non ti ho detto che Munif è morto all’improvviso, due anni prima. Afif aveva perso la voglia di vivere dopo la morte del fratello, dopo che le sue due figlie maggiori hanno dovuto lasciare il paese e dopo un decennio in cui l’umore dei siriani ha marcito nella disperazione. Waad è riuscito ad andare a Homs per dare l’addio al padre e stare accanto alla madre e alla sorella. Juju no. Sono andato a trovarla a Chemnitz per farle le condoglianze. Ti ho mai detto che vive in Germania da qualche anno? Che ha sposato un palestinese affettuoso, Fajr, e che hanno una figlia, Tamara, di circa tre anni? Anche Thaer e Waad hanno un figlio, Assi, che ha quasi nove anni. Dopo anni di vita precaria a Beirut, sono finalmente riusciti a trasferirsi a Berlino. Il regime è caduto poco dopo il loro arrivo.

È successo tutto velocemente, costringendo Bashar al Assad, suo fratello Maher e i capi dei servizi segreti a fuggire ognuno per conto proprio. I vertici della macchina della morte sembrano essersi dispersi tra Russia, Emirati Arabi Uniti e Libano.

Le nuove autorità siriane hanno fatto di tutto per ottenere legittimazione, sia all’interno del paese sia all’estero, anche se né i paesi arabi né le principali potenze mondiali hanno accolto con favore il cambiamento. Se avessero avuto più tempo, penso che sarebbero intervenute per mantenere il sanguinoso stato delle cose, come hanno sempre fatto dal 2013. Il vero miracolo non è solo la caduta di un regime durato 54 anni, ma la sua rapidità fulminante: è successo prima che chiunque se ne rendesse conto. Nemmeno i nuovi leader, forse, si aspettavano un crollo simile.

Qualcosa in gola

Ero in Francia quando è successo tutto questo, Sammour. Era appena uscito un mio libro in francese e la casa editrice aveva organizzato una serata per l’occasione, in una libreria parigina, con molti nostri amici. Stavo anche mettendo a punto, con l’aiuto di altri, la seconda edizione del premio che porta il tuo nome. Non te ne avevo ancora parlato. L’idea è celebrare una donna del mondo arabo o mediterraneo che stia facendo qualcosa d’importante nel campo della letteratura, dell’arte o per i diritti umani, ma non ancora famosa. La prima edizione, nel 2023, ha premiato Reem al Ghazzi, regista siriana di documentari.

Nel 2024 la cerimonia si è svolta nell’anniversario della vostra sparizione, la tua e quella di Razan, Wael e Nazem. Il premio è stato assegnato ex aequo a due donne eccezionali: Neama Hassan, poeta e scrittrice di Gaza; e Garance Le Caisne, giornalista francese che ha scritto un libro su Mazen al Hamada, il giovane attivista di Deir Ezzor arrestato e torturato, segnato da profonde ferite fisiche e psicologiche. Dopo il rilascio Al Hamada ha girato l’Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sul destino dei prigionieri nelle carceri del regime, ma nel 2020 è misteriosamente tornato in Siria. Una volta caduto il regime, il suo corpo è stato trovato nell’obitorio di un ospedale: sembra fosse stato ucciso pochi giorni prima.

Dato che la cerimonia si è svolta due giorni dopo la fuga di Assad, quando era ormai chiaro che il regime era caduto, si è trasformata da solenne commemorazione in vostro onore in un gioioso concerto. C’erano molti tuoi amici: Wijdan, Afaf, Hind, Doha, Lina. È stata una celebrazione della fine del regime. La festa è durata più di tre ore, con uomini e donne che cantavano e ballavano. Quella sera ha unito te – Samira – e la Siria, e almeno una delle due sembrava tornata dalla sua assenza. Per quanto mi riguarda, la Siria non tornerà mai davvero senza di te, Sammour. Questo pensiero quasi mi paralizza. Condivido la gioia dei miei amici, ma qualcosa mi resta in gola. Migliaia di persone sono uscite dalle orrende carceri di Assad, ma finché tu non torni, una parte della Siria non sarà liberata. E non si tratta solo di te e di me, ma di decine di migliaia di persone: più di 113mila di cui nessuno conosce il destino, sostengono le organizzazioni per i diritti umani più affidabili.

Un manifesto strappato dell’ex presidente Bashar al Assad a Damasco, 12 dicembre 2024 (Moises Saman, Magnum/Contrasto)

Una delle scene più sconvolgenti dopo la caduta del regime è stata la liberazione dei detenuti della prigione Sednaya. Ne sono usciti appena 1.500, una cattiva notizia. Questo significa che la macchina della morte ha funzionato a pieno ritmo per anni, e che le famiglie arrivate a cercare i propri cari non hanno avuto altra scelta che setacciare le fosse comuni.

Una persona di Damasco mi ha scritto per dirmi che la prima cosa che ha fatto, tornata nella sua città, è stata visitare la tomba del padre, morto dodici anni fa. Poi è andata a vedere cosa restava del Centro di documentazione sulle violazioni a Duma, dove tu e Razan Zaitouneh lavoravate quando sono fuggito dalla Ghuta orientale per l’ultima volta, e dove poi siete state rapite insieme a Wael e Nazem. Mi ha raccontato che la porta era stata cambiata e che nessuno ha aperto quando ha bussato. Quella porta, crivellata da fori di proiettile e schegge, è impressa nella mia mente: in una foto tu la apri dall’esterno, con uno scialle bianco sulle spalle. L’immagine è diventata famosa dopo la tua sparizione.

Voglio andarci anch’io, in pellegrinaggio nell’ultimo posto che hai amato. Tra pochi giorni sarò a Damasco, Sammour, dopo quasi undici anni e nove mesi lontano dalla città della nostra vita insieme, del nostro amore, del nostro primo bacio, del nostro matrimonio. La città in cui eravamo ricercati dai servizi segreti. Sappiamo che cominciarono a darti la caccia solo dopo che lasciasti Damasco, il 3 aprile 2013. Sembra che su di noi, su me e te, e anche su Thaer, Waad e Munif, ci fosse già un rapporto di sicurezza con un ordine di arresto prima della fine del 2012, ma per qualche ragione non cominciarono a cercarti fino all’arresto di Thaer, poco dopo la mia fuga verso la Ghuta orientale. Non indovinerai mai come l’ho scoperto. Nei primi giorni dopo la caduta del regime, un giornalista siriano che lavora come corrispondente per un quotidiano statunitense è riuscito a entrare nella sezione 215 della sicurezza militare, un centro di detenzione che è stato simbolo del terrore. Lì ha trovato il rapporto, l’ha fotografato e mi ha mandato le immagini.

Il documento ci porta nella giungla dei servizi segreti di Assad. Afferma che tu e io condividiamo le stesse idee e risiediamo all’estero, anche se un controllo di sicurezza al confine ha rivelato che non siamo mai partiti né tornati. Ovviamente. Sostiene che lavoriamo “per gruppi armati in Qatar” e siamo attivi “per conto di giornali del Golfo su internet e sui social media”. Inoltre, riceviamo “sostegno finanziario dall’estero in cambio di incitamento e mobilitazione”. È incluso il tuo numero di cellulare, non il mio, che l’autore, di cui oggi conosciamo l’identità, non aveva. La parte più grottesca di questa miscela di banalità e tragedia è forse la storia secondo cui vivevo nell’ambasciata statunitense di Damasco insieme ad altri dissidenti. Te lo ricordi, Sammour?

Duma, 18 dicembre 2024 (Moises Saman, Magnum/Contrasto)

Quando ero nella Ghuta orientale, ricevetti alcune domande da un giornalista che non conoscevo. Mi chiedeva conto di una voce secondo cui mi ero rifugiato nell’ambasciata statunitense di Damasco, che all’epoca era chiusa perché le relazioni tra gli Stati Uniti e la Siria erano interrotte dopo che il regime aveva brutalmente represso le proteste pacifiche scoppiate nel 2011. Ricorderai che questa storia l’aveva già fatta circolare all’epoca un mediocre giornalista fedele ad Assad, nel tentativo di screditarmi insieme ad altri dissidenti e ridicolizzare la nostra causa. Quando lessi l’email, quella domanda mi infastidì. Stavo per ignorare sia il giornalista sia il suo sito, Asia News. Poi pensai che forse potevo giocare la sua stessa partita e usarla contro di lui. Ricorderai certamente l’intervista, pubblicata alla fine di maggio del 2013, pochi giorni dopo il tuo arrivo nella Ghuta orientale. Risposi, come sai, che non mi mancava nulla nell’ambasciata della grande potenza: elettricità e internet senza interruzioni, strutture eccellenti e la compagnia di dissidenti noti. L’intervista suscitò scandalo. Gli oppositori della rivoluzione la lessero come un’ammissione che eravamo agenti degli statunitensi. Alcuni amici rimasero perplessi, anche se il sarcasmo delle parole era evidente.

Il rapporto dei servizi segreti trattò la questione in modo confuso. Riportò la mia risposta originale senza commenti. Secondo me perché gli esponenti del partito che controllava la vita e la morte dei siriani non erano né autorizzati a pensare con la loro testa né capaci di giudicare razionalmente il materiale che ricevevano. Erano semplici raccoglitori di informazioni. Naturalmente, non si chiesero mai se gli statunitensi avrebbero davvero consegnato le chiavi della loro ambasciata chiusa a un gruppo di dissidenti siriani.

Dopo undici anni, otto mesi e ventisei giorni di lontananza, ho attraversato il confine libanese e sono arrivato a Damasco nel pomeriggio del 29 dicembre 2024. Con me c’erano due amiche: Leyla Dakhli, ricercatrice franco-tunisina che vive in Germania, e Justine Augier, scrittrice francese, insieme a Joseph, giornalista francese di Mediapart. Non ero così vicino a te da quando ci siamo separati in quel miserabile 10 luglio 2013, quando partii per Raqqa, cinque mesi prima che tu sparissi. Anche se era un momento di gioia e celebrazione, una parte di me si tratteneva. La Siria non sarà davvero liberata finché la sua parte migliore, te, rimarrà ostaggio di questa lunga prigionia.

Canti e lacrime

Quella sera siamo andati al caffè Al Rawda, che conosci bene e che frequentavo prima della rivoluzione. Lì ho incontrato Azza Abo Rebieh e altri amici, in un’atmosfera di festa, densa di canti ed esultanza, fumo di narghilè, foto e lacrime. La prima cosa che colpisce a Damasco è la condizione di degrado e abbandono. Si vede nelle strade, negli edifici, nei taxi e nell’hotel dove abbiamo soggiornato. Il tempo e l’incuria si sono accaniti sulla città più antica del mondo. Poi c’è la povertà dilagante, incarnata dai molti mendicanti e dalle innumerevoli bancarelle spuntate ovunque. La Siria ha sofferto sotto un regime tirannico, avido e corrotto, affamato di soldi e potere. Ha sofferto anche per le sanzioni internazionali, che invece di danneggiare il regime hanno impoverito la maggior parte della popolazione civile. Oggi Damasco ha un’aria molto inquinata, che ha aggravato la tosse di cui soffrivo già prima di arrivare.

L’ex prigioniero Motasem Kattan mostra le torture subite nel centro di detenzione Sezione Palestina a Damasco, il 18 dicembre 2024 (Moises Saman, Magnum/Contrasto)

Una delle prime cose che ho fatto, con l’aiuto di una giovane amica, Shirine Hayek, è stata procurarmi un numero di cellulare siriano e comprare una piccola borsa a tracolla per i contanti. La lira si è talmente svalutata che ormai i soldi non si possono più tenere in tasca. Dai cambiavalute onnipresenti si vedono blocchi di denaro avvolti da elastici, ciascuno del valore di mezzo milione di lire.

Il giorno successivo siamo andati a Sed­naya, che era presidiata dalle guardie di sicurezza. Abbiamo visto i dormitori, ognuno con dieci celle. Mi ricordavano la prigione centrale di Aleppo, Al Muslimiya, dove ho trascorso undici anni e quattro mesi nella “sezione politica” tra il 1980 e il 1992. Ma molte delle pareti interne di Sednaya sono di metallo, non di cemento, e anche le porte sono di metallo compatto, invece delle grate di ferro che avevamo ad Al Muslimiya. Non trovo una frase migliore per riassumere Sednaya di quella pronunciata da Umm Hazem, che ha perso il marito e due fratelli, entrando in quel macello: “Un odore disgustoso, umidità, sangue e nessuno in giro”.

Quest’area murata e fortemente sorvegliata, dove la prigione occupa meno del 5 per cento dello spazio, è come la Siria di Assad: una miscela di trascuratezza e strage, degrado e crudeltà. Un posto desolato, ma sigillato da mura forti e difeso con le armi. Si sa che i prigionieri erano affamati e c’erano esecuzioni settimanali. È un luogo di disperazione assoluta, dove abbandonare ogni speranza, come nell’inferno di Dante.

Quello che mi viene in mente, Sammour, mentre oggi cammino davanti al palazzo dello stato maggiore, recintato e protetto, ai siti dell’amministrazione militare a Damasco, alla sede dei servizi di sicurezza o al palazzo della radio e della televisione, fortificato come un castello, è che il regime stava prendendo precauzioni contro la possibilità di un attacco armato a questi centri nevralgici. Ma non c’è stata nessuna battaglia. Il regime è crollato senza che a Damasco fosse sparato un colpo. Era diventato una cosa misera, logorata dall’interno, senza nessuna causa da difendere. Si è semplicemente sciolto, anche se le potenze regionali e internazionali erano in procinto di normalizzare le relazioni, nonostante il suo bilancio di crimini orribili.

Tutta la verità

Il primo giorno dell’anno ero alla porta del Centro di documentazione sulle violazioni. Con alcuni amici abbiamo organizzato un sit-in davanti all’ufficio, dove ora vive una giovane famiglia. Il posto è stato ristrutturato e sembra più abitabile di prima. Ma la porta all’ingresso dell’edificio non è cambiata, contrariamente a quanto mi avevano detto; è stata solo pitturata di bianco.

Ho bussato alla porta. Con me c’erano Lina Sinjab, che conosci e che lavora ancora per la Bbc, un fotografo britannico che collabora con lei, e Lulu. Un giovane di poco più di trent’anni ha aperto la porta e gli ho spiegato la situazione. Si era trasferito solo sette mesi prima e non sapeva nulla del tuo caso, ma è stato abbastanza gentile da permetterci di dare un’occhiata in giro, tranne nella stanza che era stata l’ufficio di Razan, dove si era appartata la moglie. La casa è stata rinnovata, ma la struttura è intatta. Il giardino, dove sedevamo nelle serate estive, è ancora lì, ma anche quello è stato rifatto.

Davanti alla casa si è radunato un gran numero di persone, tra cui la tua amica e compagna di prigionia Buthaina e suo marito, Nizar. Avevamo dei cartelli con le foto di te, Razan, Nazem e Wael. C’erano molti giornalisti siriani, arabi ed europei. Penso di aver fatto venti interviste prima, durante e dopo il sit-in. Ho raccontato la tua storia e fatto il nome del gruppo che ti ha rapita, Jaysh al islam. I suoi leader sono tornati a Duma, compreso il capo religioso, Samir Kaakeh, l’incarnazione del male. Ho detto che non vedevamo l’ora di scoprire tutta la verità su quello che ti è successo e di ottenere giustizia, processando i responsabili. Ho dichiarato che il tuo destino sarebbe stato il metro di misura dei progressi sulla via della giustizia in Siria e della questione della sparizione forzata in generale, che rappresenta la forma più estrema di impunità nel nostro paese devastato.

I giovani vogliono fare qualcosa. Cercano orientamento e organizzazione

Dopo nove giorni a Damasco, sono andato verso Homs con Najat e Lulu, in una macchina noleggiata. Non mi è sfuggito, Sammour, che questa era la mia prima visita in città senza di te. Najat ha deciso che dovevo restare con Fatima e Bassam quel giorno, in modo che lei e Lulu potessero preparare la casa, da cui erano state lontane per un po’; le avrei raggiunte il giorno dopo. Vedere tua sorella più giovane, Fatima, è stato emozionante: abbiamo pianto l’uno sulla spalla dell’altra. Quanto le somigli! Siamo rimasti svegli fino dopo l’una di notte, parlando e bevendo arak. Tu, la tua assenza, avete riempito le nostre conversazioni. Dopo aver passato nove ore a parlare, i nostri cuori erano più leggeri.

Conferenza all’aperto

Il giorno dopo, Bassam mi ha portato a fare un giro alla periferia del quartiere distrutto di Baba Amr. La città era brulicante di vita. I ristoranti e i caffè erano piuttosto affollati, le auto avanzavano lentamente nelle strade, e quasi tutti fumavano. Come Damasco, anche Homs è in uno stato avanzato di degrado e abbandono.

Bassam aveva organizzato un incontro con alcuni uomini e donne che conosceva per discutere di questioni pubbliche. Volevo partecipare e lui ha accettato con entusiasmo. Di fronte al suo negozio, che vende prodotti erboristici, saponi, unguenti e creme che produce lui stesso, ci siamo seduti sul marciapiede sotto il sole di gennaio. Abbiamo parlato di quello che era successo, di quello che stava succedendo e di cosa bisognasse fare. Eravamo tre uomini sui sessant’anni, tutti ex prigionieri politici, e sei giovani, tre donne e tre uomini, sui vent’anni. Questa piccola conferenza all’aperto, l’8 gennaio 2025, un mese dopo la caduta del regime, raccontava bene la nuova situazione e sarebbe stata impensabile solo poche settimane prima.

I giovani vogliono fare qualcosa. Cercano orientamento e organizzazione, e pensano che possiamo aiutarli. Dopo l’incontro sul marciapiede, siamo andati a casa di amida (zia) Najat, che aveva deciso di farci restare tutti insieme per la notte: Lulu, Fatima, Bassam, io e Thaer, appena arrivato da Berlino dopo una visita al padre a Yabroud. Ora era Thaer a piangere: era la prima volta che vedeva quella casa senza Afif.

Siamo rimasti svegli fino alle due di notte, parlando di politica, bevendo arak e condividendo le nostre storie. Secondo Abed al Rayyes, un giovane amico di Homs, il sentimento dominante nel paese era di sollievo, tregua, liberazione dalla paura. Mi ha invitato a parlare a un piccolo pubblico nel monastero dei padri gesuiti, dove il 9 gennaio ho tenuto un incontro di circa due ore. Abbiamo discusso di ideali, di politica e del ruolo degli intellettuali. Lulu ora è un’attivista in un’organizzazione appena nata che si occupa della società civile a Homs, una città le cui sofferenze hai conosciuto prima di sparire: molte vittime e danni estesi nelle aree urbane, soprattutto nel tessuto sociale, in particolare tra sunniti e alawiti. I quartieri alawiti erano stati appena setacciati in cerca di armi, persone e prove di partecipazione a una manifestazione alawita scandita da slogan settari (seguita il giorno dopo da una manifestazione sunnita con slogan altrettanto settari). Il rastrellamento era terminato il giorno prima del nostro arrivo, ma la situazione rimaneva fragile e poco sicura, e le strade dei quartieri alawiti erano deserte dopo il tramonto. Nei quartieri sunniti, invece, la distruzione era ancora ovunque, ma la vita continuava fino a mezzanotte.

Tutto questo è in contrasto con Latakia, dove sono andato dopo tre giorni a Homs. Durante la prima parte del viaggio, abbiamo attraversato vari posti di blocco armati. Il conducente ci ha spiegato che erano stati istituiti per contrastare le bande di ladri e rapitori che infestano la campagna a ovest di Homs. La situazione della sicurezza è instabile e non ci sono regole prestabilite per affrontare i problemi.

A Latakia sono stato con Haitham e Zubeida nella stanza dove tu e io dormivamo quando venivamo in città. La sera del mio arrivo ci siamo incontrati con Haitham e lo scrittore Nabil Suleiman in un bar; c’erano anche Amer al Marei, il figlio di Munif, la sua giovane fidanzata e altri amici.

La mattina successiva Amer ha organizzato un incontro per me con circa trenta persone interessate alle questioni pubbliche, e abbiamo condiviso le nostre valutazioni su quello che stava succedendo e su possibili strade da percorrere. Ho detto che, a causa della natura non democratica del nuovo partito al potere, non stavamo andando verso la democrazia, ma ho escluso la possibilità di uno stato islamico. Un esito più probabile è una sorta di governo dei notabili, in cui le varie comunità – confessionali, etniche o tribali – saranno rappresentate dai loro leader, come è stato per anni dopo l’indipendenza della Siria nel 1946. Una politica simile escluderebbe dallo spazio pubblico quelli come noi, che rappresentano il vero pluralismo, o almeno potrebbe limitare la nostra presenza. Ho aggiunto che dovremmo spingere per leggi che vietino la tortura, che nella nostra esperienza storica è associata alla brutalizzazione non solo degli individui ma della società intera, al settarismo e al collasso del paese.

Una vecchia fossa comune nella periferia di Damasco, il 17 dicembre 2024 (Moises Saman, Magnum/Contrasto)

I partecipanti erano diversi per genere, età e provenienza, e lo spirito prevalente era positivo, sia nei confronti degli altri sia riguardo alle nuove condizioni del paese. Questo spiega in parte perché non ci sia stata violenza diffusa nelle città, nonostante il caos e la confusione. Il senso di sollievo amplia lo spazio pubblico, anche in mezzo alla povertà e al degrado.

L’ingresso giusto

Dopo due giorni a Latakia, sono tornato a Damasco. L’ editore e storico Farouk Mardam-Bey, il ricercatore e critico letterario Subhi Hadidi e il politologo franco-libanese Ziad Majed erano arrivati nella capitale poco prima di me. Farouk visitava la sua città per la prima volta dopo mezzo secolo, Subhi tornava in Siria per la prima volta dopo trentotto anni. Sono stati accolti davanti all’hotel Umayyad da una banda musicale che suonava l’aradah shamiya, una danza tradizionale da matrimonio. Uno dei cantanti ha sollevato Ziad sulle spalle tra canti per la Siria, per la libertà e contro gli Assad. Su invito della donna che aveva organizzato la danza, noi quattro abbiamo cenato insieme alla giornalista Zeina Shahla, alla scrittrice Colette Bahna e a due attivisti di Idlib, tutti rimasti nel paese durante gli anni terribili dopo il 2011. Sul braccio di Zeina c’è un tatuaggio: 8/12/2024.

La mattina dopo sono andato nel quartiere Shaalan per fare una sorta di pellegrinaggio alla casa dove mi sono nascosto per circa un anno, che tu hai passato quasi tutto con me. Non riuscivo a riconoscere l’ingresso dell’appartamento, così ne ho fotografati tre e ho scritto al nostro caro Rashad, che mi aveva prestato la casa, di proprietà della sorella, con grandi rischi per la sua sicurezza. Rashad, a proposito, ha sposato una donna siriana, bella e di talento come lui, anche lei un’artista; vivono a Troyes, in Francia. Pochi minuti dopo mi ha risposto che nessuno dei tre ingressi era giusto. Mi ha ricordato qualcosa che non avrei dovuto dimenticare: dietro l’appartamento c’era una moschea. Sono tornato il giorno dopo e ho scattato una foto dell’ingresso: “è quello giusto”, ha detto Rashad. Ma quando ho suonato il campanello non ha risposto nessuno. L’edificio sembrava abbandonato. Rashad mi ha detto che la sorella aveva venduto l’appartamento e non sapeva chi lo possedesse ora.

Ho cercato il negozio di abbigliamento dove Adnan M. lavorava dodici anni fa, ma non l’ho trovato. Adnan è scomparso dopo la rivoluzione e si è nascosto con la famiglia per cinque anni, prima di entrare clandestinamente in Libano. Hanno ottenuto asilo in Germania, dove sono rimasti per tre anni in un Heim (centro di accoglienza) in condizioni talmente disastrose che aveva chiesto di tornare in Siria. Poi le cose sono migliorate e la famiglia si è sistemata in una casa dignitosa in una cittadina non lontana da Monaco.

Non sono riuscito nemmeno a trovare il primo posto dove mi sono nascosto. Ricordi? La sera del 30 marzo 2011, dopo il primo discorso di Bashar al Assad, una vera e propria dichiarazione di guerra, ho preso il computer e qualche vestito e ho cominciato una vita clandestina che non avrei mai pensato sarebbe durata più di due anni. Non ti ho salutato come avrei dovuto, in ogni caso tu sapevi dov’ero, e ci vedevamo spesso.

Dopo cinquant’anni

Sai che il mio senso dello spazio è debole quanto quello del tempo è affilato. Eppure il nostro amico Farouk, ora ottantenne, è riuscito, dopo cinquant’anni di assenza, a ritrovare le case in cui aveva vissuto o che conosceva dalla giovinezza. Francamente, Sammour, non cercherò la casa dove abbiamo vissuto per tre mesi ad Al Muhajireen; quel quartiere ormai mi è estraneo. A proposito, Hani e Salma, che ci avevano prestato la casa, sono qui a Damasco. Una sera, mentre discutevo di giustizia e perdono durante un incontro al caffè Al Rawda, ho visto Hani seduto da solo tra il pubblico. La sala era piena di persone di ogni tipo e ho pensato che era la prima volta che parlavo davanti a un pubblico siriano in Siria. Poi mi sono ricordato che in realtà avevo parlato al forum Atassi nel dicembre del 2004. Tre mesi dopo sono stato fischiato e picchiato in strada davanti al vecchio palazzo di giustizia da studenti baathisti; il forum è stato chiuso poco dopo.

Il 17 gennaio sono andato a Suwayda con Ula Ramadan e lo psichiatra Jalal Nawfal, entrambi tornati in Siria per la prima volta dopo più di dieci anni. Siamo andati a piazza Al Karama, dove le persone protestano dall’agosto 2023 e festeggiano dall’8 dicembre. Lì abbiamo incontrato la tua amica e compagna di prigionia Wijdan Nassif, oggi leader del movimento politico delle donne, e il mio amico e compagno di prigionia Akram Marouf. Dopo due ore trascorse in piazza e molte foto, siamo stati invitati a casa di Adnan Abu Assi, noto attivista di Suwayda. Insisteva che sarebbe stata solo una rapida tazza di caffè, ma conosci bene la generosità della gente di Suwayda: il caffè si è trasformato in frutta, buon vino e una conversazione amichevole durata più di un’ora. Eravamo una ventina.

Su consiglio di Tawfiq, un ex prigioniero politico e tuo compagno di lotta, siamo tornati a Damasco prima del tramonto, perché un tratto di strada non era sicuro. Tawfiq, che guidava, ricordava com’era durante il regime: “Qui c’era un brutto posto di blocco, e qui uno ancora peggiore”. Poco dopo siamo passati accanto alla brutale “sezione Palestina”, uno dei più noti quartieri generali della sicurezza militare, circondato da muri che sembrano quelli di una fortezza.

Avrei voluto che tu fossi lì, anche se eri presente in ogni momento

La domenica seguente sono andato con il nostro amico Abu Luay alla casa dove avevamo vissuto prima della mia vita clandestina, l’unica che potessi chiamare casa dopo quella dove ho trascorso i primi undici anni, sotto le cure di mia madre. Tu e io l’avevamo affittata nel 2004 e ci avevamo abitato fino al 30 marzo 2011, e tu ci venivi ogni tanto, quando non eri con me in una delle quattro case in cui mi nascondevo. Questo fino a quando il padrone di casa aveva minacciato di buttare via le nostre cose se non ce ne fossimo andati. Ma a quel punto, nell’ultimo mese del 2013, tu eri scomparsa e io ero a Istanbul.

Verso Aleppo

Eccomi all’ingresso, dopo quattordici anni lontano. Il cancello principale si è aperto ed è uscito Samer, il nostro vicino, che mi ha riconosciuto subito. Ci siamo abbracciati e mi ha invitato a casa sua. Ho incontrato sua moglie, Samar, e la loro figlia più piccola, Zeina, che ora ha diciannove anni. Maya, la maggiore, era al lavoro in un centro medico. Ho chiesto a Samer di parlare con il vicino per poter dare un’occhiata al nostro vecchio appartamento. L’uomo mi ha permesso di vedere l’ingresso e la stanza degli ospiti, che era molto cambiata. Sembrava che la famiglia che ci viveva ora fosse benestante, e che la nostra vecchia casa, Sammour, fosse diventata più lussuosa di com’era ai nostri tempi. Dall’esterno dell’edificio avevo notato che il balcone era chiuso con una parete di vetro. Lì ci sedevamo con alcuni dei nostri ospiti.

Da lì siamo tornati al mercato più vicino, che fino al 2011 era l’unico della zona. All’inizio erano solo poche botteghe, ora è diventato un vero mercato, piuttosto affollato. Il sobborgo, che un tempo era più popolato, sembra aver prosperato, a differenza dei quartieri che ho visto nel cuore della capitale. L’aria è pulita, non come quella di Damasco. Una parte di me era distratta dalla buona compagnia, un’altra era arrabbiata, rancorosa. In macchina con Abu Luay, mentre tornavamo a Damasco, gli ho detto che c’era solo una persona al mondo che pensavo di poter uccidere: Samir Kaakeh, il leader religioso di Jaysh al Islam, il principale responsabile del rapimento tuo, di Razan, Wael e Nazem. Abu Luay non ha commentato. Penso che dubitasse della mia capacità di uccidere quella canaglia.

Nei tre giorni passati ad Aleppo, dove ho studiato e sono stato incarcerato, ho potuto respirare e camminare liberamente in una città dove avevo vissuto per tre anni prima del carcere e per altri tre dopo. Sai quella sensazione che hai quando un luogo è soffocante, quando l’atmosfera è ostile, perfino pericolosa? Penso che sia quello che provano le donne in certi spazi pubblici dove sono molestate e osservate con insistenza. Vivevamo in un’atmosfera simile, assediati da abusi ipermascolini costanti. Abbiamo finalmente chiuso questo brutto capitolo, Sammour? È difficile dirlo.

Ho bisogno di tempo per elaborare e organizzare quello che ho visto

Sull’autobus per Aleppo due amici egiziani e io abbiamo cominciato a parlare con una giovane giornalista locale che si occupa di questioni sociali e sembra contenta della nuova atmosfera. Ci ha invitato a condividere il taxi che l’aspettava, solo per scoprire più tardi che aveva pagato l’intera corsa. La generosità degli aleppini è affascinante, e amano mostrarla, a differenza della presunta avarizia dei damasceni.

Mi ha disturbato vedere che ora davanti al giardino pubblico c’è una porta metallica che sembrava essere chiusa la notte, un tempo era sempre aperto. Anche altrove, tutto sembra essere più chiuso, come è diventato il paese negli anni sanguinosi dopo il 2011.

Quella sera Marcelle Shehwaro e io abbiamo parlato al centro culturale di Azizieh. Mentre stavamo fuori per salutare il pubblico, un uomo mi ha chiesto: “Mi riconosci? Sono tal dei tali”. Ci siamo abbracciati. Erano passati quasi trentaquattro anni dal nostro ultimo incontro. Era il mio compagno nella prigione centrale di Aleppo, da dove era stato rilasciato dopo undici anni. Quando ero uscito cinque anni dopo, mi ero messo a cercare i compagni di prigionia disposti a incontrarmi, ma quest’uomo non era tra loro, e potevo capirlo. Voleva evitare qualsiasi problema il regime potesse causare a lui e alla sua famiglia, se avesse mantenuto relazioni con i suoi ex compagni di prigionia. Ma alla prima opportunità dopo la caduta del regime, eccolo lì, a un evento pubblico a cui partecipava il suo vecchio amico. È questa la nostra storia, Sammour. La tirannia ha diviso le persone, costringendole in piccoli circoli chiusi, che ora si aprono perché la sua morsa è stata allentata.

Familiari di detenuti scomparsi nel carcere di Sednaya. Damasco, 11 dicembre 2024 (Moises Saman, Magnum/Contrasto)

Conosci Marcelle Shehwaro di nome. È stata una delle rivoluzionarie di Aleppo e dell’università. La sua vita e il suo attivismo sono una storia ricca che sarà raccontata in un libro in inglese a breve. Quella sera abbiamo parlato sul palco di come ristabilire la politica in Siria. Poi abbiamo conversato con il pubblico che riempiva le due sale del centro. Così incoraggiante e commovente, Sammour! Avrei voluto che tu fossi lì, anche se ovviamente eri presente in ogni momento, nella mia introduzione, nelle domande che amici e conoscenti mi hanno posto, e in alcune delle mie risposte. È stato il primo evento pubblico ad Aleppo dalla liberazione.

Un tema che divide

Il giorno dopo sono andato nella parte orientale di Aleppo con Nisma e Halim, una giovane coppia di attivisti. Mi hanno mostrato l’ospedale Al Quds, che è stato l’ultimo funzionante nell’area prima di essere occupato alla fine del 2016 dal regime e dai suoi alleati: gli iraniani, Hezbollah, e l’aviazione russa. Gli ultimi medici e attivisti hanno discusso se bruciare l’edificio di cinque piani mentre venivano sfollati, perché i nemici non lo usassero, o lasciarlo intatto con la speranza che potesse essere utile a dei civili. È andata che la persona meno stabile tra loro ha dato fuoco all’ospedale. A quasi nove anni da quei giorni, si vedono ancora i segni grigi delle fiamme sulla facciata.

In tutta l’area, la distruzione è stata devastante e ha suscitato dolore e disperazione. Come si possono sgombrare tutte queste macerie? Come si possono ricostruire le case distrutte delle persone che vivono nei campi? La povertà nella parte orientale della città è straziante.

Sono tornato a Damasco con Marcelle la mattina del 24 gennaio. Lei partecipava a una conferenza sulla giustizia a cui prendevano parte diverse organizzazioni siriane. I partecipanti erano per metà donne, mi ha detto la sera; alcune erano tornate dall’esilio in paesi vicini e lontani, mentre altre venivano dalle zone interne della Siria. Questo è un tema divisivo tra gli attivisti, che deve essere trattato con cautela. Il rientro di chi arriva dall’estero è emozionante, ma chi è rimasto è scontento di non avere la stessa visibilità: si sente escluso dalla storia. Si percepisce una tensione nascosta e una difficoltà di comunicazione. Il contrario potrebbe essere vero per gli islamisti. Chi l’ha vissuta dall’interno può raccontare la storia della caduta del regime e della liberazione del paese. Chi è rimasto fuori, i Fratelli musulmani, sembra escluso dalla scena, cosa che, ovviamente, non gli piace.

Ogni giorno a Damasco ci sono nuove attività, in alberghi e caffè o in luoghi di cultura che prima della liberazione erano meno attivi. Mi chiedo se la città non sia oggi una delle più vivaci al mondo per quanto riguarda il dibattito pubblico, le proiezioni di film, le conferenze, i seminari. Mentre ero a Damasco ho incontrato amici e giornalisti. Ho anche comprato dei souvenir, tra cui delle calze con l’immagine di Hafez al Assad in mutande, che sfoggia i muscoli, e una caricatura di Bashar con il collo lungo.

La mattina del 29 gennaio sono tornato a Suwayda, con Wijdan Nassif e Jalal Nawfal, per tenere un seminario. Il nostro ospite era Akram Marouf che, dopo essere uscito dal carcere, è diventato ingegnere, si è sposato e ha avuto tre figli, due dei quali vivono ora in Germania. Circa cinquanta persone hanno partecipato al seminario, per lo più anziane, almeno cinquantenni. C’erano sette donne, di cui una sui vent’anni. Dopo siamo stati invitati a una serata a casa di Adnan Abu Assi con oud, musica e vino locale. Adnan, la moglie e i figli sono tutti dissidenti.

Quella sera abbiamo saputo dell’incontro di Ahmed Al Sharaa con le fazioni militari che hanno deciso di sciogliersi e unirsi al nuovo esercito. La notizia è arrivata subito dopo quella dello scioglimento del partito Baath, dell’Assemblea popolare e del vecchio esercito; della nomina di Al Sharaa a presidente ad interim; e del suo mandato per scegliere un consiglio legislativo temporaneo. Sembra che ci troviamo di fronte a una dittatura transitoria, che potrebbe trasformarsi in una permanente. Quella notte, in piazza Umayyad, i lealisti del nuovo governo cantavano: “Jolani per sempre, nonostante te, Assad!” Questo canto sembra essere principalmente rivolto al passato, ma potrebbe stabilire un pericoloso futuro, un futuro assadista senza Assad.

La mattina seguente siamo tornati a Damasco. Alle quattro, Jalal doveva parlare con un altro psichiatra dei problemi politici e psicologici attuali in Siria. Wijdan seguiva la situazione con il solito misto di allegria e apprensione tipico dei siriani. Mi ha detto che quello che la disturbava era che, di fronte a nuove difficoltà, molti di noi erano pronti a gettare subito la spugna e lamentarsi.

La stessa foto

Nel mio ultimo giorno a Damasco sono tornato con gli amici a Duma. Abbiamo appeso un piccolo cartello all’ingresso dell’edificio che è stato l’ultimo posto dove tu, Razan, Wael e Nazem siete stati liberi: “In questo edificio hanno vissuto Razan Zaitouneh e Samira Khalil, poi Wael Hamada e Nazem Hammadi, fino a quando furono rapiti la notte del 9 dicembre 2013”.

L’autore

Yassin al Haj Saleh è uno scrittore e dissidente siriano di 64 anni. È stato prigioniero politico dal 1980 al 1996, sotto il regime di Hafez al Assad, a causa della sua appartenenza al partito comunista siriano. Dopo essere uscito di prigione ha sposato Samira Khalil (che in questo articolo chiama con il vezzeggiativo Sammour), dissidente comunista, ex prigioniera politica e attivista. Insieme hanno preso parte alla rivoluzione del 2011 e Al Haj Saleh è entrato in clandestinità, per poi trasferirsi con Khalil nella città di Duma, nella Ghuta orientale, nell’aprile 2013. L’11 ottobre di quell’anno è stato costretto a fuggire, mentre lei è rimasta per occuparsi del Centro di documentazione sulle violazioni in Siria. Il 9 dicembre 2013 Khalil è stata rapita da un gruppo jihadista insieme ai colleghi Razan Zaitouneh, avvocata e icona della rivoluzione, suo marito Wael Hamada e il poeta e difensore dei diritti umani Nazem Hammadi. Da allora non si è saputo più nulla di loro. Al Haj Saleh è scappato in Turchia e poi nel 2017 in Germania. Ha vissuto a Berlino e alla fine di dicembre 2024 è potuto tornare in Siria per la prima volta. Ha scritto libri sulla Siria, sulla prigionia e sull’islam contemporaneo. È uno dei fondatori del sito d’informazione e approfondimento Al Jumhuriya.


È stata una scena strana: circa quindici uomini e donne che salivano le scale, con fotocamere, microfoni e cellulari. Una quarantina di persone era fuori sul marciapiede, a documentare il momento. Ho chiesto a Shirine di scattarmi una foto mentre uscivo dalla porta di metallo perforata dalle schegge, con la mano alzata come per reggerla, nella stessa posizione che avevi tu nella foto che ti era stata scattata. Devo ammettere che la tua è più bella. Il tuo movimento mentre sembri uscire, portando con te la luce che filtra dai buchi, dà al ritratto una qualità unica. La mia è l’opposto: i buchi guardano nell’oscurità e la luce viene dall’esterno.

Sai, il colore bianco della porta è simile a quello della borsa che avevi nella Ghuta orientale il pomeriggio del 18 maggio 2013. Muhammad Kattoub me l’ha consegnata a Gaziantep nel 2018. È stato abbastanza sensibile da allontanarsi rapidamente dopo avermi consegnato quel pesante fardello: per la prima volta avevo qualcosa di tuo tra le mani. Conteneva la tua carta d’identità, un documento che attestava che lavoravi al Centro di documentazione sulle violazioni, alcuni gioielli, documenti, foto di te e me in un piccolo portafoglio, perline, fermagli per capelli e anche un fazzoletto consumato che ho lasciato nella borsa. La tratto come qualcosa di sacro o come se fosse piena di dinamite. Non arrabbiarti con me, Sammour. Ho paura di aprirla, scatenerebbe di certo dolori che ho cercato di seppellire per anni. Nulla fa più male di questo sacro ed esplosivo reperto che incarna la tua distanza e la tua assenza. Tengo la borsa in alto, non a portata di mano, nel mio appartamento a Berlino.

Mentre mettevamo il cartello vicino alla porta, c’erano diversi giornalisti, siriani e stranieri, che scattavano foto. Alcuni non sapevano praticamente nulla del caso e non si erano preoccupati di informarsi. Altri lo conoscevano, ma non avevano la sensibilità necessaria verso le famiglie degli scomparsi, di cui ero l’unico rappresentante presente. Nella loro ricerca di materiale, non capivano quanto potesse essere estenuante parlare di un caso come il nostro. Un giornalista di una piattaforma francese di destra cercava continuamente di portare la conversazione verso i temi preferiti dalla destra europea: il fanatismo islamico, la lotta contro il terrorismo e i diritti delle minoranze.

Cronologia
Gli anni della dittatura

1946 Dopo la seconda guerra mondiale la Siria ottiene l’indipendenza dalla Francia.
1970 Hafez al Assad conquista il potere e instaura uno stato di polizia.
2000 Alla morte di Hafez al Assad sale al potere il figlio Bashar, che ha studiato nel Regno Unito. Dopo un breve periodo di apertura politica e sociale, Assad governa con il pugno di ferro.
2011 A marzo, sulla scia delle primavere arabe, scoppiano rivolte contro il regime. A novembre cominciano gli scontri tra l’Esercito siriano libero (Esl), formato da ufficiali disertori, e quello governativo.
2012 Ahmed al Sharaa, con il nome di battaglia di Abu Mohammed al Jolani, forma il gruppo jihadista Fronte al nusra, in seguito diventato Hayat tahrir al Sham (Hts).
2014 Il leader del gruppo Stato islamico (Is), Abu Bakr al Baghdadi, proclama la nascita del califfato a Raqqa, in Siria, e a Mosul, in Iraq.
2015 A gennaio i combattenti curdi respingono l’Is a Kobane, con l’aiuto dell’Esl, dei pesh­merga iracheni e degli Stati Uniti. A settembre la Russia lancia i primi attacchi aerei a sostegno di Assad.
2016 A dicembre, dopo quattro anni di combattimenti, Aleppo torna sotto il controllo del regime.
2017 A ottobre il gruppo Stato islamico perde Raqqa.
2018 Assad riconquista la regione della Ghuta orientale, intorno a Damasco. In una zona cuscinetto proposta da Russia e Turchia nella provincia di Idlib, si radunano gli ultimi ribelli. Gli scontri continuano fino al marzo 2020, quando Mosca e Ankara firmano una tregua.
2019 A marzo le Forze democratiche siriane (Fds), a maggioranza curda e sostenute dagli occidentali, prendono il controllo dell’ultimo bastione dell’Is nell’est della Siria.
27 novembre 2024 Una coalizione ribelle guidata da Hts avanza su Aleppo, sorprendendo il regime. Tre giorni dopo conquista la città. Poi prosegue verso Hama e Homs.
8 dicembre I ribelli entrano a Damasco. È la fine del regime degli Assad.
29 gennaio 2025 Ahmed al Sharaa è nominato presidente ad interim della Siria.
13 maggio Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump annuncia la revoca delle sanzioni economiche contro Damasco.
2o maggio Anche l’Unione europea elimina le sanzioni.


Shirine e io siamo partiti per Beirut la mattina presto per evitare l’ingorgo alla frontiera. Dal lato siriano mi hanno detto che ero stato messo sotto “divieto di partenza”. Ho risposto che lo sapevo e che risaliva al settembre del 2004. Ti ricordi di quel divieto, Sammour? Allora stavo andando a Beirut per partecipare a una conferenza, quando fui fermato e mi fu consegnato un documento che mi rimandava al Settore affari ufficiali a Damasco. Forse ricorderai anche che non ho mai scoperto la ragione del divieto né sono riuscito a farlo revocare.

L’impiegato alla frontiera ha detto che non poteva decidere sulla questione e che dovevo aspettare l’arrivo dell’ufficiale. Meno di dieci minuti dopo sono stato indirizzato verso la scrivania di un altro impiegato, che ha timbrato una scheda speciale su cui avevo scritto il mio nome, quello dei miei genitori e il mio luogo e data di nascita. Quest’uomo sembrava conoscere il mio caso. Secondo il nostro autista libanese, era uno degli ex funzionari di frontiera con molta esperienza che era stato reintegrato. Non so ancora se il divieto sia stato revocato definitivamente. La nuova amministrazione fatica a fare il suo lavoro e probabilmente ci vorrà tempo prima che le cose tornino alla normalità.

Assenza silenziosa

Oggi, 2 febbraio, è il tuo compleanno. Lo festeggio con un caffè a casa di Samer e Livia a Beirut, dove sono arrivato ieri. Ti ricordi: siamo andati al loro matrimonio nel 2004 ad Aleppo. Livia è statunitense e parla arabo fluentemente, Samer è di Aleppo. Hanno tre figli.

Ho celebrato il tuo compleanno da solo in tutti questi anni, ricordando la tua presenza affettuosa, la tua enorme tenerezza, il tuo spirito generoso e le nostre serate con gli amici il 2 febbraio o il 1 febbraio, il mio presunto compleanno, un giorno prima del tuo. Il fatto che la mia vera data di nascita sia sconosciuta non ti ha mai dato fastidio. Ti piaceva che fossimo registrati in giorni consecutivi e volevi sempre che festeggiassimo con gli amici a casa, con un bicchiere di vino rosso o gin e lime che preparavo per te, e arak per me e la maggior parte dei nostri amici.

Le foto di questo articolo

◆ Con il lavoro dedicato alla prigione di Sednaya, in Siria, pubblicato sul New Yorker nel dicembre 2024, il fotografo spagnolo-peruviano Moises Saman ha vinto il premio Pulitzer del 2025 nella categoria Feature photography.


È passato tanto tempo da quando vivevamo insieme, poco più di undici anni. Quanto ho lottato con questa lunga e silenziosa assenza, Sammour! Viviamo la presenza con attenzione distratta, siamo assenti in una certa misura, e così, quando una vera assenza come la tua c’è, rimpiangiamo di non aver riempito la presenza quanto avremmo dovuto. Siamo perennemente impegnati a evocarla, e perennemente ci sfugge. In tutti questi anni mi è mancata una guida che mi aiutasse a superare questo calvario, un modo per orientarmi. Non c’è dubbio che molti abbiano mostrato solidarietà e sostegno, ma la combinazione del mio esilio e del collasso violento del nostro paese mi ha lasciato ad affrontare la tua assenza da solo, indifeso. La tua assenza è un’esperienza originale nel senso più forte della parola, un’esperienza senza precedenti. Non sono sicuro di saperla mettere in parole. Sento di essere nella stessa situazione delle madri che hanno perso i figli e non trovano abbastanza sostegno da chi le circonda, non sapendo come esprimere quello che provano. Esperienze così originali sono insostenibili: possono uccidere. Le madri muoiono di dolore, e anche i padri. Ma queste esperienze continuano a vivere, se sappiamo come trarne significato, leggi e linee guida. Tuo marito ha cercato di dare un significato alla tua lunga e silenziosa assenza. Ci riesce e fallisce.

Il 2 febbraio mi trovo nella casa di un amico a Beirut, pensando come un sopravvissuto. Tocca al sopravvissuto raccontare. Non smettere di parlare e ricordare, finché l’assenza persiste.

Sono tornato a Berlino dopo circa quaranta giorni di viaggio in Siria e Libano. Senza una routine di alcun tipo, mi è mancato il mio ritmo quotidiano. Ho bisogno di tempo per elaborare e organizzare quello che ho visto in queste settimane straordinarie, lo spirito che oggi rivive nel corpo del nostro paese dilaniato.

Un giorno e mezzo dopo il mio ritorno, mi è venuta in mente una domanda: perché non sono rimasto in Siria? Cosa ci faccio a Berlino? Perché ti ho lasciato sola e sono tornato in questo paese? Era come se dovessi rientrare a Berlino per realizzare che dovevo tornare al tuo fianco. Rimanere lì per raccogliere informazioni, per investigare i percorsi della giustizia per te. Perché la mia residenza a Berlino è il luogo della “vita ordinaria”? Perché scelgo una vita ordinaria quando tu sei stata privata sia della vita sia della morte, e quando io ho il potere di scegliere?

Baci a te, mio cuore.

Yassin ◆ svb

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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati