Se mai fosse servito un altro segnale dell’estrema polarizzazione della società israeliana, è arrivato con il trentesimo anniversario della morte di Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista religioso il 4 novembre 1995. In un momento in cui la fase più intensa della guerra a Gaza è momentaneamente sospesa e gli ostaggi israeliani sono stati liberati, l’evocazione del 1995 riporta alla luce una memoria divisiva.

La sera del primo novembre più di centomila persone si sono riunite nel centro di Tel Aviv, non lontano dal luogo in cui Rabin fu ucciso, per rendere omaggio al primo ministro che aveva firmato gli accordi di Oslo del 1993. Ma l’attuale leader del paese Benjamin Netanyahu, feroce avversario di Rabin, ha scelto di non partecipare alle cerimonie, né alla manifestazione né all’omaggio ufficiale a un primo ministro e capo di stato maggiore del passato.

Un sondaggio traduce in cifre questa polarizzazione: il 51 per cento degli israeliani giudica l’eredità di Rabin positiva, contro un 28 per cento che la giudica negativa (il resto è composto da indecisi). Eppure solo un terzo degli intervistati pensa che Israele si troverebbe in una situazione migliore se Rabin fosse sopravvissuto. Fatto ancora più grave, i due terzi della popolazione temono un nuovo omicidio politico.

Yitzhak Rabin e il suo ministro degli esteri Shimon Peres, i due leader della sinistra laburista, avevano negoziato in segreto gli accordi di Oslo con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat. La foto della stretta di mano tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca, il 13 settembre 1993, resta una delle più importanti del ventesimo secolo.

Oggi è un ricordo divisivo. Gli avversari del compromesso, marginali trent’anni fa, sono ormai al centro del gioco politico. Sul fronte palestinese, Hamas ha avuto un ruolo cruciale nella distruzione degli accordi di Oslo con i suoi attentati suicidi. Sul versante israeliano, invece, l’estrema destra che oggi è alleata di Netanyahu opera nel solco dell’assassino di Rabin, Ygal Amir, giovane estremista religioso che all’epoca aveva 23 anni e oggi è ancora in carcere.

La necessità di una prospettiva

Questo anniversario ravviva quindi un ricordo ancora attuale, quello di un compromesso che doveva permettere ai due popoli di vivere in pace e che oggi è ostacolato dalle stesse forze di allora.

Le speranze nate a Oslo evaporarono rapidamente, mentre l’uccisione di Yitzhak Rabin di fatto fermò il processo di pace. L’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 ha creato un muro d’odio a cui solo una minoranza degli israeliani continua a resistere, mentre la brutalità della vendetta di Tel Aviv a Gaza ha lo stesso effetto sui palestinesi.

Le politiche di Israele rafforzano Hamas
Le uccisioni, la distruzione e il saccheggio spingono i palestinesi a vedere nel movimento islamista l’unica possibile resistenza all’oppressione.

La commemorazione di uno dei gesti politici più tragici della storia di Israele permette di riportare al centro del dibattito pubblico l’idea del compromesso. Le centomila persone riunite il 1 novembre a Tel Aviv non sono tutte favorevoli alla soluzione dei due stati, tutt’altro. Ma sono comunque unite dal ricordo di un uomo che fu un comandante temibile in guerra ma che si era convinto della necessità di offrire ai palestinesi una prospettiva politica.

Quando gli accordi di Oslo furono firmati ero corrispondente da Gerusalemme e posso testimoniare che la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi aveva sinceramente creduto che la pace fosse dietro l’angolo, prima che il processo naufragasse. La memoria di Rabin, il guerriero che strinse la mano di Arafat, ha almeno il merito di ricordarci che quella possibilità è esistita davvero.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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