Le promesse di un boom edilizio a Gaza – dal piano del ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’impegno di quello per la sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir a costruire quartieri di lusso per poliziotti, fino ai progetti della leader dei coloni Daniella Weiss per ricostruire le colonie (con l’assistenza divina) – si sono rivelate aria fritta.
È facile dire che l’accordo di cessate il fuoco in vigore nella Striscia di Gaza ha inferto un duro colpo al movimento dei coloni e ai suoi sostenitori negli Stati Uniti. Altrettanto allettante è l’immagine dei loro castelli di sabbia che crollano sotto il peso dell’inimmaginabile ostinazione e determinazione degli abitanti di Gaza e del rifiuto duro ma politicamente calcolato dell’Egitto di consentire una fuga in massa dei palestinesi nel suo territorio.
Dall’inizio della guerra gli egiziani hanno preso sul serio i piani per l’espulsione della popolazione di Gaza e il reinsediamento degli ebrei nella Striscia, dichiarati da funzionari israeliani che a quanto pare hanno dimenticato il fallimento dei loro predecessori per espellere da Gaza le persone che vi si erano rifugiate nel 1948. Ma il cessate il fuoco non può essere visto solo come un’appagante sconfitta del movimento dei coloni.
La logica politica sottesa a queste parole al vento ha plasmato e continua a plasmare la politica israeliana dalla firma degli accordi di Oslo. Quella logica è riuscita a impedire la creazione di uno stato che realizzerebbe il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, anche se solo sul 22 per cento della terra tra il fiume e il mare.
La stagione delle olive
Il sabotaggio della sovranità palestinese da parte di Israele è il riflesso della sua volontà di impossessarsi di quanta più terra possibile con il minor numero di palestinesi possibile. Questo significa espulsioni. Verso la zona della Cisgiordania sotto il controllo palestinese o con l’esilio, con le bombe dell’esercito o con le mazze dei “giovani delle colline”, attraverso le demolizioni e gli sgomberi forzati e con l’arresto di chi cerca di proteggere la propria comunità e se stesso: il risultato è uguale.
Se questa è la linea politica, gli sforzi internazionali per “riformare” i testi scolastici palestinesi sono destinati a fallire. Il soffocamento quotidiano imposto da Israele e la sua prepotenza, supportati dalla superiorità delle armi, sono l’origine dell’istigazione.
Uno degli strumenti più efficaci per sabotare la nascita di uno stato palestinese è stato e continua a essere il principio di “separazione”. Presentato nel linguaggio della sicurezza che l’opinione pubblica israeliana ama, questo strumento assume molte forme: separare Gaza dalla Cisgiordania (dal 1991); separare la Cisgiordania da Gerusalemme Est; dividere le città palestinesi; isolare i villaggi dalle strade principali e dai centri regionali e allontanare i palestinesi dalle loro terre e dagli altri.
I documenti ufficiali del governo militare degli anni cinquanta e sessanta – pubblicati decenni dopo – hanno confermato quello che i palestinesi (e la sinistra non sionista) avevano compreso da tempo: la cosiddetta logica della sicurezza usata per giustificare le pesanti restrizioni agli spostamenti era dettata in gran parte dagli interessi immobiliari degli ebrei israeliani.
Il piano di una popolazione e di un territorio palestinese frammentati su entrambi i lati della Linea verde (che segna il confine tra Israele e Cisgiordania fino al 1967) è sempre stato un riflesso di quello del “Grande Israele” per gli ebrei. Entrambi sono ancora all’opera, insieme alle vaghe clausole del progetto del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per un cessate il fuoco e un “nuovo Medio Oriente”.
La destra dei coloni sta rimediando alla parziale perdita a Gaza – “parziale” perché l’esercito ha comunque raggiunto l’obiettivo di infliggere il massimo della distruzione e della morte – intensificando gli attacchi e gli espropri di terre in Cisgiordania. Questo si concretizza innanzitutto nella quotidiana separazione dei contadini dalle loro terre, una tattica che porta risultati immediati e dolorosi. Insieme all’amministrazione civile, all’esercito e alla polizia, i coloni accelerano il processo attraverso la violenza fisica, l’ostruzionismo burocratico e un’insaziabile arroganza. Dato che ora è la stagione delle olive, i battaglioni del Signore hanno rivolto la loro attenzione alla raccolta e ai contadini.
L’11 ottobre a mezzogiorno erano già state segnalate intimidazioni e attacchi di coloni e soldati a persone impegnate nella raccolta delle olive nei villaggi di Jawarish, Aqraba, Beita e Madama, a sud di Nablus; a Burqa, a est di Ramallah; e a Deir Istiya, nella regione di Salfit. Il giorno precedente notizie simili erano arrivate da Yarza, a est di Tubas; da Immatin, Kafr Thulth e Far’ata nella zona di Qalqilya; da Jawarish, Qablan, Aqraba, Hawara, Yanun e Beita, intorno a Nablus; e da Al Mughayyir e Mazra’a Al Sharqiya, vicino a Ramallah. Queste sono solo le informazioni diffuse da un gruppo WhatsApp che monitora il nord della Cisgiordania.
I soprusi assumono varie forme: sconfinamenti, provocazioni, blocchi stradali, minacce armate, aggressioni fisiche, furti di olive e incendi di auto. Il resto è affidato alla politica ufficiale, che impedisce la libertà di movimento dei palestinesi tra Gaza e la Cisgiordania e all’interno della Cisgiordania. La negazione del diritto di scegliere dove vivere o lavorare ha devastato a lungo la società, l’economia e le strutture politiche palestinesi, e soprattutto il futuro dei suoi giovani.
Non meno di quanto abbiano fatto le valigie piene di contanti dal Qatar che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha trasferito a Gaza, la separazione della popolazione della Striscia da quella della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza dal resto del mondo sono serviti a rafforzare Hamas, prima come organizzazione politica e militare, poi come forza di governo.
Negli anni novanta Hamas sosteneva che Israele non volesse la pace e che gli accordi di Oslo non avrebbero portato all’indipendenza. Le restrizioni imposte da Israele a Gaza e la costante espansione delle colonie resero queste argomentazioni convincenti per molti palestinesi, soprattutto nella Striscia. Gli attentati suicidi di Hamas erano visti sia come una reazione sia come un test: la risposta di Israele avrebbe premiato chi contestava gli accordi di Oslo e l’Autorità nazionale palestinese (Anp)?
E in effetti Israele li premiò, non rispettando i suoi impegni. I limiti al movimento e il furto delle terre indebolirono l’Anp e il partito che la guidava (Al Fatah), che avevano sostenuto il processo diplomatico, ma all’inizio degli anni duemila avevano preso la strada della resistenza armata.
Incanalare l’energia
Hamas dipinse il disimpegno israeliano da Gaza del 2005 e lo smantellamento delle colonie come una dimostrazione del suo successo: la lotta armata aveva funzionato. Ogni classe di diplomati – ragazze e ragazzi che non erano mai usciti dalla Striscia chiusa ermeticamente, non avevano mai conosciuto un altro modo di vivere e non riuscivano a trovare lavoro – diventava più vulnerabile all’idea del mondo oppressiva veicolata da Hamas, alla sua propaganda e alle motivazioni per unirsi al suo braccio armato (un reddito che sosteneva le famiglie impoverite). Hamas ha imparato così a incanalare l’energia repressa e la creatività di Gaza nella sua macchina militare e politica.
L’Anp, Al Fatah e il loro apparato di sicurezza sono rimasti inermi di fronte alla crescente ondata di espropri in Cisgiordania e alla conseguente devastazione economica, una situazione peggiorata dagli ordini dei vari ministri delle finanze israeliani di trattenere le entrate doganali palestinesi.
Per l’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania questa impotenza va unita alla corruzione dell’élite civile e militare dell’Anp, considerata opportunista e indifferente purché le sue tasche restino piene. Non sorprende dunque che la resistenza armata – associata prevalentemente a Hamas – conservi il suo prestigio tra i giovani della Cisgiordania: ai loro occhi, almeno può causare sofferenze e umiliazioni all’aggressore israeliano.
Tutto lascia pensare che Israele continuerà a bloccare la libertà di movimento dei palestinesi e a limitare il loro ingresso dall’estero e quello degli attivisti internazionali nella Striscia. Di conseguenza, chi più di tutti avrebbe bisogno di sentirlo non potrà sapere cosa pensano gli abitanti di Gaza della resistenza armata. In altre parole, non potrà sapere quanti di loro detestano Hamas. Di fronte alle politiche israeliane di uccisioni, distruzione e spoliazione in Cisgiordania, molti palestinesi che non abitano a Gaza, insieme a molti loro sostenitori all’estero, continueranno a vedere Hamas come il rappresentante autentico dell’aspirazione alla libertà e della resistenza all’oppressione.
Quando a Gaza comincerà il lavoro di bonifica degli ordigni inesplosi e di ricostruzione, sarà evidente che il processo è più complicato e costoso di quanto ci si aspettava. Oltre alla ricostruzione materiale, ciascuno dei milioni di abitanti di Gaza avrà bisogno di una guarigione fisica e psicologica e di una riabilitazione, su una scala e durata che sfidano l’immaginazione.
L’approccio giusto sarebbe consentire ai palestinesi della Cisgiordania e di Israele di partecipare a questo processo, in collaborazione con i professionisti della Striscia che sono sopravvissuti: ingegneri, architetti, muratori, chirurghi, oculisti, contadini, informatici, insegnanti, psicologi, operatori sociali e specialisti in energie rinnovabili. Sarebbe logico anche sviluppare dei programmi in Cisgiordania per dare assistenza alle decine di migliaia di bambini di Gaza rimasti orfani, feriti o con una disabilità.
In breve, prima che il mondo si lanci in appalti internazionali per la ricostruzione di Gaza, elabori specifiche tecniche o faccia vuoti proclami sulla sovranità e sulla scomparsa di Hamas, dovrebbe usare gli strumenti politici a sua disposizione per fare in modo che Israele metta fine alla sua politica distruttiva per separare Gaza, la Cisgiordania e il resto della terra.
Se questo non accadrà, anche se Hamas deponesse le armi a Gaza, il movimento islamista o una sua futura versione continuerà a essere il punto di riferimento politico del popolo palestinese. ◆ fdl
Amira Hass è una giornalista israeliana che vive a Ramallah, in Cisgiordania.
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati