Anche se il Medio Oriente non occupa più le prime pagine dei giornali, non significa che i conflitti siano stati risolti. Negli ultimi giorni ero a Beirut, dove un drone israeliano sorvolava costantemente la città emettendo un suono inquietante, come a ricordare a tutti i libanesi che il loro vicino del sud fa quello che vuole, quando vuole.
In Libano, nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania (ma anche in Iran) nessuno dei motivi di scontro degli ultimi due anni sembra davvero in via di soluzione. Metterli in “pausa” può portare sollievo alla popolazione dopo la devastazione delle armi, ma niente di più.
In Libano tutti, fino ai più alti vertici dello stato, sanno bene che il problema non è se ci sarà un’altra guerra con Israele, ma quando. Dopo il cessate il fuoco firmato undici mesi fa, Israele ha bombardato quasi ogni giorno obiettivi in territorio libanese. Il 26 ottobre, nel sud del Libano, gli attacchi israeliani hanno ucciso due persone. La questione cruciale del disarmo di Hezbollah, irrisolvibile secondo un diplomatico occidentale ben informato, rischia di scatenare un nuovo scontro.
Il consiglio dei ministri libanese ha votato il disarmo della milizia sciita, considerevolmente indebolita dalla guerra dell’anno scorso ma non ancora annientata. L’esercito libanese dovrebbe farsene carico, ma per i gusti degli statunitensi procede troppo lentamente, perché poco motivato e agguerrito. Per questo Washington ha avvertito Beirut: “Se non disarmerete Hezbollah, ci penserà Israele”.
Secondo i miei interlocutori a Beirut, il dilemma libanese consiste nella necessità di scegliere tra forzare il disarmo rapido di Hezbollah (manovra che potrebbe provocare una guerra civile) e accettare un nuovo intervento israeliano. In Libano nessun leader politico intende assumersi il rischio di una nuova guerra interna dopo quella che ancora pesa sul paese trent’anni dopo la sua conclusione. Quindi,tra i due mali, quello di una guerra con Israele sembra il minore. A un mese dalla visita del papa in Libano, è una prospettiva tutt’altro che incoraggiante.
False speranze
Quanto alla Striscia di Gaza, la prima fase del piano Trump è quasi terminata e il passaggio alla seconda, più politica, sembra impossibile. Anche qui è centrale la questione del disarmo, in questo caso di Hamas.
È una situazione pericolosa: Hamas ha di fatto ripreso il controllo dei territori da cui l’esercito israeliano si è ritirato, cioè la metà del totale, con il rischio che questa nuova linea di separazione diventi una frontiera duratura per un territorio amputato e devastato.
L’accordo di Sharm el Sheikh prevede il disarmo di Hamas, ma chi se ne occuperà? Gli Stati Uniti e Israele si rifiutano di lasciar intervenire l’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas, che in ogni caso avrebbe grosse difficoltà. Ma chi altro potrebbe farlo? La forza internazionale che non è ancora nata? Difficile immaginare soldati arabi, a prescindere dalla nazionalità, sparare sui palestinesi dopo tutto quello che hanno subito. Restano gli israeliani, che però in due anni di guerra senza pietà non sono riusciti a eliminare Hamas.
In Cisgiordania, infine, la violenza dei coloni protetti dall’esercito sta raggiungendo livelli agghiaccianti, nella più completa impunità e nel silenzio della comunità internazionale. Il piano Trump, d’altronde, non citava minimamente questa regione colonizzata.
Difficile sorprendersi davanti a questo paesaggio regionale inquietante. D’altronde il cessate il fuoco non è la pace e nemmeno una bozza della pace, nonostante tutte le false speranze nate a Sharm el Sheikh.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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