Cosa può fare l’arte quando le libertà individuali si riducono e basta un semplice post sui social network per finire in carcere? Cosa aspettarsi dagli artisti quando l’aria diventa irrespirabile e arriva l’autocensura? Un tentativo di risposta può arrivare dalla 18a edizione della Biennale di Istanbul, a qualche mese dall’arresto, a marzo, del sindaco della città Ekrem Imamoglu, principale figura dell’opposizione al regime di Recep Tayyip Erdoğan.

Organizzato in tempi ridotti dalla curatrice libanese Christine Tohmé, l’evento si articolerà per la prima volta su tre anni, da qui il titolo enigmatico The three-legged cat. Si comincia con una mostra che riunisce una quarantina di artisti, per lo più dell’emisfero sud, seguita da “un’accademia” dai contorni ancora vaghi nel 2026, e poi da una seconda mostra nel 2027. Poi, nel 2029, si torna a una cadenza biennale. “In regioni come le nostre tutto evolve così rapidamente che i concetti standard non sono più sufficienti”, cerca di giustificarsi Keyser Güler, vicedirettrice della biennale. “Bisogna continuamente imparare e disimparare”.

Ruolo politico

Imparare in particolare dagli errori del passato, perché tutto era cominciato molto male. All’inizio del 2023 il consiglio consultivo della biennale aveva indicato la curatrice turca Defne Ayas per dirigere l’edizione del 2024. Ma la fondazione Iksv, che promuove e organizza l’evento, non ha voluto tener conto di questa raccomandazione, nominando al suo posto la britannica Iwona Blazwick, che fa parte anche del consiglio. Una decisione che aveva spinto gli ambienti dell’arte turca a parlare di conflitto d’interessi e di opacità. “Quel passaggio critico è stato salutare”, afferma Ahu Antmen che dirige il museo Sakıp Sabancı e fa parte del consiglio consultivo. “Ci ha costretto a ripensare il ruolo di una biennale e il suo impatto sulla comunità”.

Un ruolo inevitabilmente politico, anche se le personalità turche hanno solo un peso marginale. E i motivi sono evidenti: terrorizzati, i protagonisti della vita culturale turca, compresi quelli che avevano partecipato alle proteste del 2013, sono molto riservati e cauti. In primavera il curatore di un museo della città ha passato tre settimane in prigione per aver manifestato.

E così gli elementi che animano la biennale vengono da altri paesi. Da Lagos per esempio: Machine boys è un affascinante video di Karimah Ashadu sui conducenti illegali di moto-taxi nella città più grande della Nigeria. Con le loro voci fuori campo, parlano di denaro, di fatalità e di sopravvivenza, mentre scorrono le immagini del traffico della città. Ma se dovessimo scegliere una sola opera sarebbe Tomorrow again, un video pieno di umorismo macabro della giovane artista palestinese Mona Benyamin. È la parodia di una trasmissione politica in cui tutti urlano e nessuno ascolta, e che culmina nella risata nervosa di un presentatore del meteo, mentre sullo sfondo scorre la desolazione dei territori palestinesi.

Tomorrow again, Mona Benyamin (Sahir Ugur Eren)

Questo sentimento d’impotenza riecheggia ancora più intensamente alla Biennale di Gaza, in corso fino all’8 novembre al centro Depo, uno spazio che appartiene al filantropo e oppositore turco Osman Kavala, in prigione dal 2017. L’iniziativa solidale vuol far sentire le voci degli artisti di Gaza ed è sostenuta dalla piattaforma House of Taswir e dal Forbidden museum di Ramallah con la benedizione di artisti internazionali come l’iraniana Shirin Neshat.

Quando tutto vacilla è consolante vedere le file di persone davanti ai vari siti della biennale di Istanbul. Infatti, nonostante le sue mancanze, sottolineate dagli artisti turchi che si ritengono sottorappresentati, per i più giovani l’evento rimane un’occasione preziosa per riconnettersi al mondo. Perché le frustrazioni sono grandi. “L’ecosistema è fragile e le opportunità rare”, si rammarica l’artista Irem Günaydın.

In un contesto del genere mantenere legami con l’estero è fondamentale. A Smirne, capoluogo dell’opposizione dove l’ex sindaco e alcuni importanti funzionari sono stati arrestati a luglio, l’armatore Lucien Arkas ha chiesto aiuto al Centro Pompidou di Parigi per assicurare per cinque anni la programmazione del museo di arte contemporanea che aprirà nel marzo 2026. Ma con quali margini di libertà? “In quanto struttura privata, siamo abbastanza protetti”, risponde il suo consulente artistico Jean-Luc Maeso.

Mecenati inattaccabili

Non è facile prendersela con il più grande armatore turco. E neanche con gli Eczacibasi, magnati dell’industria farmaceutica che finanziano il magnifico museo Istanbul Modern, una delle tre famiglie (insieme ai Koc e ai Sabancı) che riescono a imporre delle opere che nessuno oserebbe mostrare. Come quelle dall’artista femminista statunitense Suzanne Lacy, esposte al museo Sakıp Sabancı.

Vedere nel museo una grande foto dell’artista, solo con un body durante una performance del 1974, ha qualcosa d’ironico, soprattutto sapendo che in settembre la procura di Istanbul ha aperto un’inchiesta per “immoralità in luogo pubblico” contro le Manifest, una band femminile molto apprezzata dai giovani. “Le questioni poste da Suzanne Lacy trovano eco nelle giovani generazioni. L’artista mostra un’altra forma di attivismo, basato sull’empatia e non sugli slogan”, afferma la direttrice del museo Ahu Antmen, che vuole proporre più artiste donne.

Bisogna chiamarsi Omer Koc e rappresentare il nove per cento del pil turco (circa 104 milioni di euro) per permettersi di ospitare nel suo bel palazzo ottomano sulla riva asiatica del Bosforo una mostra provocatoria come Folia. Un’esposizione precedente era stata oggetto di denunce anonime presentate al Cimer (il centro di comunicazione della presidenza della repubblica, nei fatti uno sportello per le delazioni, creato dieci anni fa dal regime) per via di un nudo. “Abbiamo dovuto dare spiegazioni, ma non ci sono stati problemi. E se dovessero richiedercelo, difenderò anche questa mostra”, afferma la curatrice Selen Ansen.

Del resto le donne turche non esitano più a far sentire la loro voce. Partita dal mondo della fotografia, un’ondata #MeToo scuote la scena artistica dalla fine di agosto. In appena dieci giorni più di cinquemila post hanno invaso i social media, denunciando decine di personalità e di anonimi del mondo dell’arte, tra cui un fotografo accusato di abusi dalla famiglia di una ragazza morta nel 2022. “Il nostro sistema giudiziario è una barzelletta”, spiega la sorella della defunta. “Con i nostri amici cerchiamo di informare la gente, perché nel nostro paese questo genere di cose non hanno alcun tipo di ripercussione legale”. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati