Al vertice di Sharm el Sheikh, sulle rive del mar Rosso, l’ordine del giorno ufficiale è ambizioso: “mettere fine alla guerra” e “aprire una nuova pagina di sicurezza e stabilità regionale”, ovvero entrare nella fase “cruciale” del “piano Trump” una volta ottenuti il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e il ritorno degli aiuti umanitari.

Ci saranno Trump e più di una ventina di leader europei (tra cui Emmanuel Macron, Giorgia Meloni, Friedrich Merz, Keir Starmer, Pedro Sánchez) e mediorientali. Ma non tutti avranno le stesse priorità e lo stesso obiettivo in mente.

La presenza di alcuni leader europei come il presidente francese Macron merita una spiegazione. Molti si aspettavano che gli statunitensi e gli israeliani avrebbero fatto di tutto per tenere a distanza gli europei, visto che avevano già abbondantemente criticato l’iniziativa franco-saudita alle Nazioni Unite per risuscitare la soluzione dei due stati, osteggiata da Tel Aviv e Washington.

Ma i paesi arabi – a cominciare dall’Egitto, paese ospitante – non vogliono affidarsi unicamente gli Stati Uniti in questo momento delicato. Gli europei, nonostante i limiti evidenti della loro influenza, sono stati invitati per garantire che il dopoguerra a Gaza rispetti almeno alcuni principi.

Il piano Trump è carente su almeno tre punti: chi governerà Gaza dopo la guerra, chi disarmerà Hamas – un punto cruciale – e che ne sarà della Cisgiordania, totalmente assente dal progetto statunitense.

L’aspetto più complicato è quello della sicurezza in un territorio devastato da due anni di guerra. Il 12 ottobre un giornalista palestinese è stato ucciso da alcuni miliziani, mentre gli esponenti di Hamas, riemersi con le loro armi, hanno scatenato la caccia ai collaboratori di Israele. Il caos minaccia di esplodere nuovamente, soprattutto se la forza di stabilizzazione internazionale prevista dal piano non dovesse essere messa in piedi rapidamente.

Ma quale sarà il suo mandato? Appoggiare un’entità palestinese che ancora non esiste o incaricarsi direttamente di imporre l’ordine? E chi disarmerà Hamas, che non intende fare un passo indietro fino a quando Israele continuerà a occupare una parte della Striscia di Gaza? È un difficilissimo rompicapo.

In cattivo stato

La Francia e i suoi partner arabi cercheranno di riproporre la logica del piano adottato dall’Onu in estate, che traccia un percorso verso la nascita di uno stato palestinese. Ma non è questo che ha in mente Trump né tanto meno il governo di Benjamin Netanyahu in Israele.

Da due settimane Parigi continua a elogiare il piano di Trump nella speranza di spingerlo ad avvicinarsi alla posizione franco-saudita. Questa missione passa dal ritorno in sella dell’Autorità palestinese, che pur essendo in cattivo stato incarna l’unità tra Gaza e la Cisgiodania. Anche in questo caso Israele si oppone, mentre gli Stati Uniti hanno altre idee, come la nomina di Tony Blair.

Il rischio è che queste divergenze si ripresentino a Sharm el Sheikh, insieme all’ostilità del governo israeliano verso qualsiasi sviluppo possa somigliare alla costruzione di uno stato palestinese, finendo con un cessate il fuoco senza un processo di pace. Sarebbe la ricetta per un futuro catastrofico. Una volta svanita l’emozione di questi giorni felici senza guerra, segnati dal ritorno a casa di ostaggi e prigionieri, la complessità della situazione rischia di tornare al centro della scena.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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