Il 25 settembre Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, è intervenuto all’assemblea generale delle Nazioni Unite. Ma, quasi a simboleggiare la sua situazione precaria, lo ha fatto in videoconferenza dal suo ufficio di Ramallah, in Cisgiordania, e non nella grande sala del grattacielo di vetro di Manhattan. L’amministrazione Trump non gli ha concesso il visto per entrare negli Stati Uniti, un gesto che ha irritato l’Onu, perché a New York si è parlato molto della Palestina, ma senza i diretti interessati.
Mahmoud Abbas, chiamato anche Abu Mazen, è un presidente paradossale. Anche se da vent’anni governa l’Autorità palestinese (ultimo residuo degli accordi di Oslo), il suo potere è molto limitato, e la sua legittimità ancora di più. È il successore di Yasser Arafat alla guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che riunisce i rappresentanti del nazionalismo palestinese, ma oggi è messo ai margini sia dall’ostilità di Israele nei confronti di qualsiasi entità palestinese degna di questo nome sia dalla maggioranza dei suoi concittadini, che lo considera ormai un vecchio dirigente (ha 89 anni) incapace di difendere i loro diritti. A questo si aggiungono le accuse di corruzione e il fatto che le ultime elezioni risalgono a vent’anni fa.
Eppure Abbas è al centro dell’iniziativa di pace franco-saudita, perché è quello che più si avvicina a una parvenza di legittimità. Può sembrare sorprendente, ma non bisogna dimenticare la desolazione del contesto politico palestinese.
Al Fatah, il movimento fondato da Arafat e oggi guidato da Abbas, è sfinito da trent’anni di fallimenti dei processo di Oslo ed è alle prese con la concorrenza degli islamisti di Hamas, che lo hanno cacciato dalla Striscia di Gaza.
Dopo la strage del 7 ottobre 2023 in Israele, Hamas è stato messo al bando dalla comunità internazionale, tanto che nel testo franco-saudita presentato all’Onu è escluso dalle elezioni previste per nominare la futura leadership palestinese. E Abbas ha ripetutamente condannato gli attentati del 7 ottobre.
Pari a zero
I paesi arabi e la Francia, in mancanza di meglio, si affidano dunque a Mahmoud Abbas. L’occupazione israeliana e le faide interne palestinesi lasciano poco spazio alle alternative, che sono limitate alla società civile o sono in prigione, come Mahmoud Barghouti, il più popolare tra i leader palestinesi, in carcere da più di vent’anni.
Se il piano franco-saudita sarà messo in pratica, Abbas potrebbe essere l’uomo della transizione, e lui si è già detto pronto. Il problema è che Israele non ne vuole sentire parlare e gli statunitensi sono reticenti, come dimostra la vicenda del visto.
In effetti gli Stati Uniti lavorano a una soluzione diversa e sono pronti a proporre un nome inatteso per il dopoguerra a Gaza: quello di Tony Blair, ex primo ministro britannico. Blair partecipa alle riunioni alla Casa Bianca e la settimana scorsa era nell’ufficio del presidente francese Emmanuel Macron. Il piano statunitense prevede che Blair possa guidare un’autorità di transizione a Gaza, lasciando un ruolo minore all’Autorità palestinese.
È una scelta che lascia perplessi: Blair è stato abbondantemente screditato dal suo sostegno all’invasione dell’Iraq del 2003, e in seguito è stato un emissario in Medio Oriente del tutto irrilevante. La sua legittimità è pari a zero.
Intanto la distruzione di Gaza continua, con l’esodo di centinaia di migliaia di persone e decine di vittime ogni giorno. Per i palestinesi bisogna prima fermare la guerra, invece di pensare a chi governerà su questo campo di macerie.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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