Da quando è tornato alla Casa Bianca Donald Trump ha aperto un ciclo impressionante di negoziati per rivedere i rapporti commerciali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Il presidente statunitense e il suo movimento nazionalista Maga (Make America great again) sono convinti che qualunque paese in surplus commerciale con gli Stati Uniti sia un parassita che deruba la ricca economia americana.

Finora sono pochissimi i trattati commerciali conclusi da Trump ed effettivamente entrati in vigore, ma bastano a far capire i suoi metodi ricattatori e arroganti e la sua visione a dir poco miope, a cui tra l’altro non sono estranei gli interessi personali: l’idea è eliminare il deficit commerciale statunitense riportando nel paese la produzione manifatturiera, più o meno un ritorno all’America degli anni settanta. A Trump e ai suoi fedelissimi sfuggono molti dettagli, per esempio il fatto che da tempo gli Stati Uniti hanno abbandonato alcune produzioni manifatturiere per concentrarsi su settori avanzati e ad alta produttività, quindi molto più redditizi.

Una chiara dimostrazione dei metodi di Trump è il caso del Giappone, che ha siglato un accordo commerciale con gli Stati Uniti il 23 luglio, entrato poi in vigore il 4 settembre. Grazie all’intesa il governo di Tokyo è riuscito ad abbassare dal 25 al 15 per cento i dazi aggiuntivi imposti in un primo momento. I numeri in gioco sono notevoli, visto che il Giappone è la quarta economia mondiale e soprattutto uno storico e fedele partner economico e militare di Washington.

Questo non ha impedito a Trump di ricattare Tokyo, minacciando di affossare alcuni dei suoi settori produttivi più importanti. L’ha fatto innanzitutto con l’auto, un pilastro dell’economia giapponese che vanta un surplus commerciale di 63 miliardi di dollari con gli Stati Uniti. La case automobilistiche nipponiche hanno evitato un pesante 25 per cento, ma bisogna considerare che fino a pochi mesi fa potevano esportare negli Stati Uniti pagando un dazio del 2,5 per cento. Evidentemente Tokyo ha valutato che la tariffa concordata è un male necessario pur di non perdere l’accesso al mercato statunitense. L’unica “soddisfazione” è che Trump ha rinunciato a mettere dei limiti sul numero di auto e componenti giapponesi importabili.

La Casa Bianca ha ottenuto l’apertura del mercato giapponese ai veicoli statunitensi e a vari prodotti agricoli, tra cui il riso, pagando un dazio reciproco del 15 per cento. Washington e Tokyo, inoltre, formeranno un consorzio per produrre gas naturale liquefatto in Alaska. Ma l’aspetto più inquietante dell’accordo riguarda il fatto che Tokyo si è impegnata a investire negli Stati Uniti 550 miliardi di dollari accettando delle condizioni che probabilmente rappresentano una novità assoluta nella storia dei trattati commerciali: i 550 miliardi saranno investiti in settori e in affari indicati da Trump e dai suoi collaboratori; gli eventuali guadagni andranno per il 90 per cento agli Stati Uniti; il Giappone, inoltre, ha 45 giorni di tempo per finanziare i progetti indicati dalla Casa Bianca se non vuole vedersi imporre dazi più alti.

È probabilmente con manovre di questo tipo – una sorta di estorsione in grande stile – che Trump intende finanziare il fondo sovrano di cui parla da mesi. Ora, infatti, la Casa Bianca sta cercando di imporre condizioni simili alla Corea del Sud e all’Unione europea, con cui ha siglato degli accordi a luglio. Ma sta incontrando molte più difficoltà. Il governo di Seul, in particolare, non ha nessuna intenzione di far decidere a Washington dove investire i propri soldi.

La Casa Bianca pretende che i sudcoreani mettano a disposizione 350 miliardi di dollari se vogliono vedersi ridurre i dazi aggiuntivi dal 25 al 15 per cento. Le tensioni sono peggiorate il 5 settembre, quando gli agenti dell’immigrazione statunitensi hanno fatto un raid in una fabbrica in costruzione in Georgia, nel sudest degli Stati Uniti, arrestando circa trecento sudcoreani. La Corea del Sud, la quarta economia asiatica, è un importante produttore di automobili e di elettronica, e le aziende sudcoreane hanno molti stabilimenti negli Stati Uniti.

Il 19 settembre, in occasione della sua visita nel Regno Unito, Trump ha dichiarato che “senza i dazi gli Stati Uniti avrebbero ricevuto solo una piccola parte degli investimenti registrati in questi giorni”. Nei suoi rapporti con il resto del mondo l’inquilino della Casa Bianca continua ad applicare l’idea che negli scambi commerciali e in generale in politica estera ogni vantaggio derivi esclusivamente dalla perdita di qualcun altro. Tutto questo, unito alla sua ossessione per il ritorno (impossibile) a un’America d’altri tempi, alla sua fascinazione per autocrati come Vladimir Putin e all’odio per l’Europa, porta a un mondo dove non ci sono alleati ma solo avversari da indebolire a proprio vantaggio. Trump crede in questo modo di attrezzarsi per sfidare il colosso cinese, ma in realtà sta solo scavando la fossa al suo paese. Speriamo non all’occidente.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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